Mi è sempre piaciuto viaggiare in macchina. Solo viaggiare, non guidare. Mai guidare.
Mi piaceva guardare il panorama scorrere veloce fuori dal finestrino, o chiudere gli occhi e lasciarmi cullare dal lieve brusio del motore, contare le marce, e allontanare ogni altro pensiero dall'enorme caos che regnava nella mia testa.
Seconda, e i giri salivano, salivano. Terza, si abbassavano, poi risalivano, fino al momento del nuovo cambio. Mi piaceva viaggiare, e mi piaceva andare veloce. La sesta era la mia marcia preferita. «Cece.» Occhi chiusi, non risposi. Aspettavo la sesta, invece la macchina iniziò a rallentare, i giri si abbassarono, viaggiavamo di nuovo in seconda, prima di imboccare Viale Regina Elena. «Sei silenziosa, stasera.» Occhi chiusi, non risposi, di nuovo.
Strana, era stata una serata strana.
Osservai il mio riflesso nello specchietto retrovisore. Il bagliore freddo delle luci dei lampioni, catturato dalle lenti spesse e rotonde dei miei occhiali, illuminava un viso pallido e stanco, segnato dal mascara che mi era colato sulle guance.
Che disastro.
Mi avevano usata come un gabinetto. Usata, abusata e insudiciata senza rimorso, e poi mi avevano chiesto di non pulirmi fino a che non fossi tornata a casa, e non vedevo l'ora di arrivarci. Non vedevo l'ora di sentire la consolazione del getto caldo della doccia sulla pelle, di lenire le percosse, di lavare via l'odore pungente del sesso. Un odore di quelli che ti rimanevano appiccicati addosso per ore, un odore tattile.
Sfilai e lasciai cadere le Converse, e mi rannicchiai sul sedile, i piedi nudi, le ginocchia sotto al mento, le gambe strette tra le braccia. «Me la sono vi-vi-vista brutta, stasera.» Ma lui aveva fermato tutto.
Ludovico.
Era ripiombato nella mia vita all'improvviso, anzi, ci si era infilato con la forza, un concetto familiare, a cui avrei dovuto essere abituata, come ero abituata a essere usata, abusata e insudiciata senza rimorso. Ma non ero abituata a qualcuno che intervenisse per aiutarmi.
E mi ero spaventata. E avevo pianto.
Stava capitando una cosa nuova, e quando capitava qualcosa di nuovo, il risultato era imprevedibile, e io non gestivo bene l'imprevedibilità. Io ero mansueta, silenziosa, obbediente e abitudinaria. Cercavo la ripetizione, poiché quello che conoscevo lo potevo gestire, lo potevo sopportare. Nella ripetizione mi sentivo al sicuro, anche se si trattava di violenza.
Ma bastava una piccola variabile a gettarmi nel panico.
Presi l'accendino e la canna che avevo imbucato nella tasca del mio cappotto, l'accesi, e abbassai pochi centimetri di finestrino, quanto bastava per soffiare il fumo fuori dalla vettura. «Fammi fare un tiro.» Una mano serrata sul volante, l'altra sulla leva del cambio, Joel frenò dolcemente davanti al rosso del semaforo, e si sporse leggermente verso di me.
«Allora, non mi racconti niente?»
«Non se-serve. Tanto vedrai i vi-video. Tutti ve-ve-vedranno i video.»
Portai la canna alle sue labbra mentre la sua mano scivolava lungo le mie gambe nude. Saliva piano, una lenta carezza prima delicata, poi maleducata, che insolente chiedeva di diventare intima. Joel trasse una lunga boccata di fumo, e la cenere sulla punta della canna s'illuminò di un bagliore incandescente mentre aprivo le gambe, lasciando che le sue dita raggiungessero il mio sesso bagnato.
«Che casino.» commentò sbuffando fuori il fumo mentre dischiudeva le mie labbra per massaggiare distrattamente il mio clitoride. Mi chiesi se si stesse riferendo alla serata, o piuttosto al macello che avevo fatto sul sedile della sua Mercedes, ma risposi solo con un mugolio sommesso. Sarebbe stato vero in ogni caso: la mia esistenza stessa era un vero casino.
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𝐁𝐄𝐄𝐇𝐈𝐕𝐄
Romance🔞 [𝐈𝐍 𝐂𝐎𝐑𝐒𝐎] «𝑀𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎𝑚𝑖 𝑖 𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖, 𝑐𝑎𝑛𝑒 𝑟𝑎𝑏𝑏𝑖𝑜𝑠𝑜. 𝑀𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎𝑚𝑖 𝑖𝑙 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑢𝑖 𝑠𝑚𝑒𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑢𝑚𝑎𝑛𝑜.» *** Sono passati dodici anni dall'omicidio di Villa Alveare, un caso irriso...