Le mie lacrime, il tuo dolore

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RICORDI DI GREENE


24 maggio, 1988


Arthur tese il braccio e lanciò verso il cestino la pallina di carta che aveva ricavato dal taccuino. La osservò compiere una parabola e rimbalzare un paio di volte sul bordo per poi cadere a terra e unirsi alle sue compagne. Una smorfia delusa gli apparve sulle labbra. Un altro punto mancato per il nuovo acquisto dei Pistons. Nonostante gli allenamenti e l'indiscusso talento, la stella dell'NBA non sembrava in forma. Probabilmente sarebbe stata costretta a saltare la prossima partita.

Strappò un altro foglio, desideroso di rifarsi. Erano le nove passate e stava morendo di fame. Era rimasto a guardia del forte, mentre Sullivan e Romero erano di pattuglia, con ogni probabilità a mangiare un panino seduti comodamente in auto e a fumarsi mezzo pacchetto di Camel a testa. Sperava che almeno avessero la decenza di portargli delle patatine.

«Cosa stai facendo?». Il rimprovero del capitano Wilkinson lo raggiunse proprio mentre stava per cimentarsi in un altro lancio. Se ne stava fermo sulla soglia del suo ufficio, lo sguardo duro come se l'avesse sorpreso a calarsi una confezione da sei mentre era in servizio. Arthur abbassò subito il braccio. Non aveva paura di Wilkinson, ma non poteva negare che sapesse essere autoritario. Persino minaccioso, con chi era tanto audace da provocarlo. Tuttavia, lui non ne aveva mai sentito il bisogno e quella sera non faceva eccezione.

«Nulla, capo. Stavo cercando di far passare il tempo.»

«E così ti stai annoiando, vero?». Wilkinson gli si avvicinò a piccoli passi, quasi passeggiando nel grande stanzone stipato di scrivanie vuote e illuminato da neon che gli davano l'emicrania. Arthur pensava che non avrebbe potuto fare diversamente neanche se l'avesse voluto. Il capitano era alto, ma anche massiccio. Nessuno se ne sorprendeva, visto che il suo ufficio puzzava costantemente di uova fritte. Per quel tricheco sarebbe stato un miracolo anche solo tagliare il traguardo dei cinquanta senza collezionare nessun infarto.

«Non c'è molto da fare, capo.»

«Vero, vero» gli rispose Wilkinson, divertito. «È un peccato che da queste parti non si vedano parecchi corrieri della droga o stupratori. Che dici, pivello, sporgiamo reclamo?»

«Non era questo che intendevo.»

«Sia lodato il Signore. Stavo per peccare di presunzione, allora.»

Arthur non sapeva degli altri peccati, ma qualcuno aveva cucito la presunzione sulla testa di Wilkinson il giorno in cui era stato messo al mondo. Vero, era soltanto un pivello fresco di diploma dell'accademia e quello era il suo primo incarico, ma aveva immaginato che la vita del poliziotto fosse un po' più dinamica.

Si era sentito molto sollevato quando gli era stato comunicato che avrebbe servito nella contea di Redwood invece che in una grande città come Portland, dove bisognava stare attenti anche con stupidi studentelli desiderosi di esternare il proprio disprezzo per l'autorità. Ma ne passava di acqua dal doversi guardare le spalle a chiedersi se quel giorno il proprio culo sarebbe stato più su una sedia sfondata o sul sedile della volante.

Fare il poliziotto non gli dispiaceva, ma non l'avrebbe definita la sua vocazione. Semplicemente, si era arruolato con lo scopo di dare una direzione alla propria vita e aveva scoperto di non odiare doversi alzare al mattino per indossare l'uniforme. Ormai aveva ventotto anni e nessuna idea su chi diventare. Non aveva mai avuto un animo artistico o qualche passione bruciante, e a scuola si era sempre tenuto sull'anonima media della sufficienza. Vincere una borsa di studio sportiva non era mai rientrato tra le sue speranze date le sue scadenti doti nel basket e nel baseball. Considerava se stesso privo di particolari talenti e la sua vita piatta, monotona, al limite della mediocrità. Se non altro, in accademia aveva scoperto di essere un buon tiratore, ma tutto lì visto che a Redwood, si era esercitato al massimo su qualche bottiglia o barattolo.

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⏰ Ultimo aggiornamento: 5 days ago ⏰

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