6. Dominatio (2/2)

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02:22


Quando Iggy lo lasciò sul vialetto e si dileguò con una sgommata, la prima cosa di cui Damiano si accorse fu di avere un lunghissimo capello scuro attaccato alla giacca. Lo afferrò tra il pollice e l'indice e lo esaminò sotto la luce che illuminava il cancello d'ingresso, mentre una falena gli svolazzava in un'orbita intorno al capo.

L'ultima volta che aveva indossato quella giacca si trovava con Virginia. Doveva avergli appoggiato distrattamente la testa sul petto, oppure era stato lui stesso a tirarle per sbaglio un capello a furia di far scorrere le mani tra le sue ciocche.

Gli sfuggì un sorriso. C'erano diversi modi in cui poteva interpretare quel segno. Da un lato aveva tutta l'aria di essere un cattivo presagio, un monito e un memento – sarebbe potuto uscire con tutte le persone che voleva, diceva, ma senza mai liberarsi del tutto di lei. Eppure Damiano vi percepì una sorta di calore, come se in realtà Virginia avesse voluto proteggerlo o portargli fortuna a distanza.

Non preoccuparti, pensò, sto preparando qualcosa anche per te.

Rientrò in casa con il riverbero della proposta folle che gli aveva fatto appena qualche giorno prima in testa.

All'ingresso si rese conto subito di non essere solo. Anche se era buio, distinse chiaramente il respiro pesante di suo fratello a pochi metri da lui, nell'area salone. Lasciò il mazzo di chiavi nel piatto in vetro di Murano sul mobiletto accanto alla porta, si tolse le scarpe e avanzò nel corridoio fino a immettersi nella luce opaca che pioveva dalla vetrata principale del piano terra, a metà tra il bagliore della luna e quello delle lampade da giardino.

La figura di Davide, nella stessa luce, con i capelli lisci e sciolti sulle scapole, il corpo longilineo e il pigiama bianco, ricordava quella di un'eterea creatura notturna che striscia fuori dalla sua tana una volta tramontato il sole. Se ne stava in piedi dinanzi al divano, al centro della stanza, e aveva il volto sollevato verso l'orologio sulla parete del televisore. La lancetta dei secondi proseguiva il suo giro in un ticchettio quasi inudibile.

«Da'» lo chiamò Damiano.

Davide lo ignorò. Corrucciò solo un po' lo sguardo, come se nella visione di quell'orologio gli stesse sfuggendo qualcosa, come se tra loro ci fosse un enigma o una partita in atto. L'orologio voleva suggerirgli la soluzione, ma Davide continuava a non capire. Era calmo, però per mantenere quella calma doveva aiutarsi respirando profondamente dal naso.

Nulla a cui Damiano non avesse già assistito.

Gli si avvicinò roteando gli occhi. «Sì, Da', sono le due e ventidue. Direi che è ora di andare a dormire.» Per qualche assurda ragione, era fissato con quello e una manciata di altri orari da quand'era ragazzino. Non era la prima volta che lo trovava sveglio di notte a fissare l'orologio. Almeno il neuropsichiatra aveva assicurato a suo padre che non si trattava di un comportamento allarmante. Diceva che fosse un altro dei piccoli rituali nella sua routine, la necessità di controllare il tempo, di aggrapparsi a una forma di concretezza.

Tentò di circondargli le spalle con un braccio per accompagnarlo di sopra, ma a quel punto Davide si scostò riservandogli una faccia seria e infastidita. Damiano, come ogni volta che lo guardava così da vicino, non si capacitò della loro somiglianza. Davide era solo poco più basso di lui. I geni dei loro genitori si erano mescolati in modo così sorprendentemente simile soltanto per produrre due individui che non avevano niente a che fare l'uno con l'altro.

Davide lo precedette lungo le scale. Forse la vera differenza tra loro stava nel modo di camminare: nonostante l'indolenza nelle braccia che li accomunava, la rigidità nella colonna vertebrale di Davide lo faceva sembrare sempre in allerta per pericoli di cui nessuno era a conoscenza.

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