2. Enfant terrible

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2.


Enfant terrible



02:57


era l'orario che segnava lo schermo touch della sua BMW Coupé Serie 8. Non trovò la forza di partire subito. Si accasciò con le mani e la fronte sul volante, preso da un'improvvisa stanchezza, quella che non aveva provato per più di una settimana e che decise di palesarsi tutta di colpo in quell'esatto momento. Il pensiero di doversi svegliare alle sette, l'indomani, gli apparve devastante e insensato come mai prima d'ora.

A diciannove anni, a uno come lui l'idea di andare a scuola cominciava a sembrare quantomeno obsoleta. Avrebbe potuto decidere di assentarsi senza grandi problemi, ma da quando suo padre era tornato a casa dall'ultimo viaggio di lavoro – Copenhagen o Malmö, ormai aveva smesso di memorizzare gli itinerari della sua agenda – aveva ripreso ad assillarlo un curioso senso di responsabilità.

Chissà cosa avrebbe detto, se avesse saputo quanti flûte di Dom Pérignon si era scolato quella sera al Mirage, l'ultimo per il brindisi di auguri a Marco Paolini, diciotto anni appena compiuti, nel privé prenotato per una cerchia di quindici persone. Se gli avessero somministrato l'alcol test sulla strada del ritorno, avrebbe comunque trovato il modo per scamparsela, ma era l'opinione che il padre avrebbe avuto di lui a turbarlo. Non era uno che prendeva tanto alla leggera le bravate. Aveva una così alta considerazione di Damiano che una caduta di stile come quella avrebbe potuto soltanto causargli un'enorme delusione e modificare l'immagine che aveva di lui.

Si fidava di Damiano proprio perché era maturo. Entro qualche anno, glielo diceva spesso con una stretta alla spalla, l'avrebbe fatto diventare un suo socio. Magari anche l'anno successivo. Non gli interessava molto se avesse deciso di iscriversi all'università, che avrebbe persino potuto frequentare come mero passatempo, con l'intelligenza e il nome che si ritrovava: lo voleva con sé a dirigere il suo impero, perché infine potesse ereditarlo.

Da un Vicari magnate della finanza a un altro.

Rialzò la testa, un macigno sul collo, e guardò dal parabrezza l'orizzonte nero al di là del campo che faceva da parcheggio al locale. Scrutò le poche stelle che pulsavano in quella notte di fine marzo, poi sospirò tra sé in preda al disappunto. Non era il periodo giusto, e in ogni caso l'inquinamento luminoso era troppo anche in quella zona dislocata della città. C'era un solo posto in cui potesse stare davvero a contatto con il cielo senza barriere. L'unico di cui gli importava.

E lui sta per portarmelo via per sempre.

L'amarezza che si era instillata in lui dall'inizio della serata si fece più acuta. Si rese conto di essersi comportato da stronzo asociale per tutta la festa, cosa che i ragazzi avevano rispettato con deferenza senza battere ciglio, ma la verità era che non vedeva l'ora di tornare a casa e mettersi a letto. 

Forse finalmente Achille l'avrebbe fatto dormire.

Inserì la retromarcia e uscì dal parcheggio con un cenno di saluto al nuovo custode. Gli lasciò una mancia di venti euro, e lui lo ringraziò chiamandolo «signor Vicari». Quindi sapeva chi era anche se non si era presentato. Doveva averglielo riferito il padre di Marco prima che arrivasse, insieme al modello della sua auto.

Quando svoltò a sinistra per imboccare la strada a senso unico, si accorse di un volto familiare nel deserto notturno. Poco distante dal locale, un ragazzo vestito con un cappotto nero lungo fino ai piedi e acquistato di certo in un negozio vintage a prezzo stracciato, stava parlando chiassosamente al telefono con una donna, a vivavoce e in un'altra lingua. Camminava avanti e indietro e gesticolava al vuoto come se la sua interlocutrice potesse vederlo, ma si bloccò nel notare la macchina di Damiano.

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