°capitolo 12- Remember

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- 10 years before -

"Zayn andiamo, tua sorella ci starà aspettando."

Sbuffai rumorosamente. Non ci volevo andare in quel cazzo di posto.

Era davvero inquietante, e pure Zhora lo era alle volte.
Mamma diceva che era malata, diceva che sarebbe stata meglio. Mi diceva tante cose, ma non riuscivo a credere a nessuna di esse.

Come sarebbe potuta stare meglio, una persona, che cercava di spezzare il vetro tra le dita, avendo paura del suo stesso riflesso?

Come poteva guarire una persona, che di malattie non ne aveva?

Come poteva esser considerata persona, lei che sembrava essere fatta di frammenti di sogni infranti?

E come poteva essere recuperabile, lei che parlava con le ombre?

Avevo solo tredici anni, ma sapevo bene che, lei, da quel maledetto posto, non sarebbe mai più uscita.

Papà mi posò una mano dietro alla schiena, come a volermi incutere del coraggio, come a dire 'vai avanti, io ci sono', ma allo stesso tempo, mi chiesi perchè per me c'era sempre stato per tutto quel tempo, mentre a Zhora, l'aveva abbandonata così in fretta.

Mi ritrovai a pensare, di dovermi ritenere fortunato, ad essere io, quello normale tra i due.

Ad essere quello che, in quel momento, stava percorrendo quel lungo e sbiadito corridoio, col cuore in gola.

Giungemmo davanti a quella porta, era esattamente la numero 668, e sembrava tacere terrorizzata, nell'ombra di uno sguardo.

Mamma e papà entrarono dentro, dipingendo prima sulle loro facce, due falsi sorrisi carichi di speranza.

Non l'avevano abbandonata, perché ne avevano paura, o perché lei era strana, lo avevano fatto, perché non capivano come aiutarla. Ma non era poi così tanto difficile, bastava amarla, a lei, e le sue ombre.

Se ne stava rannicchiata, sulla sua sedia a rotelle, con i capelli arruffati e tutti davanti al viso.

Stava tremando, le sue dita stavano tremando, lei ed il suo cuore, tremavano.

Mamma le si avvicinò, le accarezzò la testa, che lei inclinò di poco di lato.

"Come stai, piccola mia?"
Zhora, alzò lo sguardo, me lo posò addosso. Chissà quanto mi invidiava lei.

Potevo vedere, tra le ciocche di capelli, i suoi mostri, danzare nelle sue pupille.
Quegli stessi mostri, che l'avevano portata, a rimanere da sola.

Lei stessa volle isolarsi dal resto del mondo, ma rimase bloccata nella sua gabbia, impotente.

Alzò una mano verso di me, con le dita intirizzite, screpolate, piene di graffi e cicatrici.
Quelle dita che ne avevano passate tante.

Mi tendeva la mano, ma ero troppo codardo persino per guardarla in faccia, come se, tutto quello, fosse solo colpa sua.

Ma di colpe lei non ne aveva, era stata toccata dalla follia, dalla pazzia in un attimo, ma ero certo, che non l'avesse chiesto lei.

Papà mi spinse forte verso di lei.
Lo guardai terrorizzato, mentre lui, con quell'aria superiore mi imponeva di andare da lei.

Coi passi che volevano rimanere incollati alle scarpe, arrivai di fronte a lei.
Era sempre così bella. Aveva ancora gli occhi vivaci, pur se martoriati. Erano di un marrone bellissimo, più chiaro del mio, addirittura, più vero del mio.

Sorrise. Lo fece davvero. E mi si sciolse il cuore. Era bellissima, non bella. Ed era vera lei, non solo i suoi occhi.

Mi implorava perdono, con le labbra cucite, ma le parole scolpite negli occhi.

E capì che per quanto strana, era sempre lei, quella che si prendeva le colpe al posto mio; quella che mi offriva la sua pizza, quando finivo la mia; quella che sorrideva ai miei dispetti; che mi faceva spazio nel suo letto, quando i tuoni di un malvagio temporale, venivano a bussarmi alla finestra.

E allora io non ce la feci più.
La abbracciai forte, tanto forte.

Perché mi mancava, e perché il mostro nell'armadio, non aveva fatto in tempo a cacciarlo via; perchè volevo sentire ancora la sua risata calda, impregnare le mura di casa; perché era l'unica che mi capiva, perché il suo sorriso metteva tutti di buon umore; perché mi mancava, e perché le volevo ancora un bene immenso.

"Ti voglio bene Zaz."

Mi strinse forte anche lei, non voleva che la lasciassi lì da sola. Aveva paura anche lei, e forse io sarei riuscito a fingermi tanto uomo, da aiutarla a controllare sotto il letto, dentro all'armadio, negli angoli bui, un po' come faceva lei, come allora, come sempre.

Non ero ancora pronto a lasciarla, era pur sempre mia, era pur sempre mia sorella, era pur sempre stata la mia prima scoperta.

La mano che aveva tenuto chiusa fino a quel momento la mise di fronte a noi.
Aprì il pugno.

Una farfalla blu, spiegazzò le piccole ali colorate, prima di volarsene via, dai nostri respiri.

"T-tanti augu-ri Jawe." sussurrò al mio orecchio.

E fece male, perché fu l'ultima volta, che me lo sentii dire da lei.


||• Che ti guardo, come se ti dovessi salvare, da un mondo che è pieno di guai.•||

Anthropophobia :: z.j.m ;Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora