Erano ormai le undici passate quando ero andato a letto.
Trevor aveva portato i miei bagagli nella stanza degli ospiti, decorata da alcuni quadri molto interessanti fatti da un suo amico, e li aveva sistemati in un armadio di legno dipinto.
Il letto era matrimoniale, molto rustico ma comodissimo, e sopra era steso un lenzuolo candido e profumato.
Un’enorme finestra che dava sul campo lasciava entrare il venticello fresco tipico della Toscana.
Avevamo mangiato cibo italiano, cucinato da mia sorella con indosso un grembiulino di pizzo bianco.
Avevo giocato con Philip, conosciuto Trevor- anche se non lo avevo trovato certo interessante- e finalmente trovato un modo per non pensare a me stesso.
Ma in camera, steso sul letto alla fievole luce della lampada da lettura, che mandava sul soffitto immagini fosforescenti delle stelle, ero crollato.
E le cose da cui ero scappato, rifugiandomi in Italia, erano tornate, silenziose e subdole come serpenti striscianti.
Così avevo scavalcato il davanzale di mattoni ed ero sceso a piedi nudi sull’erba brinata.
La luna e le stelle componevano un mosaico lucente di cerchi pieni e sfumati, e avevo alzato la testa per raccoglierne la luce. Mi ero steso per terra, con le braccia stese lungo i fianchi.
Dopo un sospiro silenzioso avevo cercato la Freccia di Prometeo, la costellazione che mi aveva regalato prima che morisse, e l’avevo fissata fino a che gli occhi non si erano chiusi da soli, abbandonandomi al dolce oblio del sonno.Il giorno dopo mi ero svegliato nel letto, il cuscino umido di lacrime che non ricordavo di aver versato.
Mi ero stropicciato gli occhi ed ero corso in bagno, dove mi ero fatto una doccia fredda e mi ero profumato con uno strano flacone blu notte.
- Acqua di Bolgheri- mi aveva detto mia sorella, quando era entrata per portarmi la colazione a letto.
Mi aveva trovato in mutande, e avevo sorriso per scusarmi, poi era uscita, dandomi appuntamento per il pranzo. La colazione era a dir poco inaspettata: una brioche alla crema, un caffelatte macchiato, pane e marmellata di more. Nessuna traccia di cibo salato.
Mi ero infilato una maglia nera, dei jeans e un paio di infradito, poi ero andato in soggiorno, e avevo visto dalla finestra Philip che giocava con una macchinina, facendola scivolare lungo il vialetto.
- Posso giocare anche io, piccolino? – gli avevo chiesto, sedendomi accanto a lui.
- Prendi- mi aveva detto, allungando la macchinina rossa verso di me.
E io l’avevo caricata, portandola all’indietro, per poi lasciarla rombare lungo le pietre rustiche che componevano l’ingresso.
Non c’era il sole, ma l’aria era afosa come solo alla fine di agosto poteva essere.
- Bavo, zio! – mi aveva detto lui saltandomi in braccio per recuperare il giocattolo dopo la folle corsa.
- Noah…- aveva sussurrato una voce, spezzando il sorriso che si era gelosamente impadronito del mio volto.
Mi ero voltato: ma non c’era nessuno, nessuno a cui poteva appartenere quel tono intelligente e malizioso. Nessuno che poteva essere vivo.-Quindi, fammi capire. Sei stato tu a riportarmi in casa, o mi hai obbligato a farlo sui miei piedi?-
Trevor stava mangiando un pezzo di torta al cioccolato, e le briciole cadevano e si ammassavano nel piatto di ceramica nera. Era vestito ordinatamente, ma avevo visto un certo cambiamento rispetto al giorno prima, visto che quel giorno mia sorella non c’era. Sembrava più rilassato.
- Ho provato a convincerti a camminare, ma continuavi a mugolare un nome…-
Mi stava fissando, nello stesso modo in cui ormai continuavano a fare sia lui che mia sorella, come se avessi avuto problemi di igiene mentale incurabili.
In fondo è normale addormentarsi sull’erba e a piangere sbraitando, no?
- Vai avanti- l’avevo esortato, mentre imboccavo Phil con una mano e mangiavo con l’altra.
Suo padre era chiaramente troppo imbranato per farlo. Certo, non che mi dispiacesse riallacciare i rapporti con mio nipote. Ma mi piaceva anche l’idea di umiliarlo.
- Così ti ho preso in braccio e ti ho portato in camera tua. E tu hai aperto gli occhi e mi hai chiamato in un modo strano…ma pensavo che avessi dimenticato il mio nome-
E così l’idiota aveva capito che l’avevo scambiato per qualcun altro, eh?
-Scusami. Ero veramente stanco. Ieri è stata una giornata terribile-
Lui mi aveva lanciato uno sguardo solidale – Oggi invece è una buona giornata per vedere il mare. Potrei accompagnarti e lasciarti un po’ solo con Philip-
- Non penso che sia una buona idea. La gente potrebbe riconoscermi e non ne ho voglia. Voglio solo stare in pace. Potremmo andare a fare una passeggiata in un posto meno affollato. Che cosa mi consigli?-
Philip aveva mangiato senza che me ne accorgessi un enorme pezzo di torta, e la guarnizione di panna gli colava lungo il mento. Sorrideva.
L’avevo asciugato e pulito mentre lui ridacchiava e Trevor farneticava di un posto chiamato Populonia, che dava anch’esso sul mare ma che non sarebbe certo stato affollato come il resto della riviera tirrenica.
- Partiamo alle tre, allora-
Avevo annuito, poi ero uscito con il bambino al seguito, marciando verso il cavallo che, come il giorno prima, brucava sotto un ulivo.
- ‘Obin Woow- aveva esclamato, l’euforia che caratterizza ogni bambino ben visibile sul volto gioviale. Il cavallo aveva nitrito e abbassato la testa per farsi toccare, docile e imponente.
Il suo manto bianco era ricoperto di macchie sulla parte anteriore del corpo slanciato, e gli occhi erano socchiusi. Robin Hood.
- E’ bellissimo vero, Phil? – gli avevo chiesto e lui si era limitato ad accarezzargli il muso. Dovevo ammettere che il coraggio non era un difetto ma una virtù, in lui.
Anch’io ero così da piccolo, e me l’aveva fatto notare un anziano insegnante delle elementari, quando un giorno, osservandomi mentre mi arrampicavo su una parete rocciosa accanto alla scuola, durante l’ora di educazione fisica, sorretto da fischi e incitamenti da parte dei miei compagni di classe, mi aveva sgridato davanti a tutti una volta sceso. Quello che avevo capito solo più tardi era che il mio coraggio non era altro che una stupida ribellione mascherata a dovere e adattata alla mia facciata di ragazzo educato ma intraprendente, pronto a rischiare una punizione pur di emergere e sentirsi speciale. Quando avevo iniziato a frequentare le scuole medie, invece, avevo iniziato a comportarmi in modo coraggioso, compiendo sacrifici e scelte cruciali; eppure negli ultimi anni non potevo neanche considerarmi il vecchio Noah, visto quello che avevo combinato, seppur contro la mia volontà.
- Fame-
Le moine di Philip mi avevano riportato al presente, anche se controvoglia: d’altra parte, nel passato non ero certo così solo.
- Allora torniamo dentro. Sempre che tuo padre sia capace a cucinare -Tornato in casa, avevo trovato un biglietto sul tavolo.
“Sono andato da Emily, in una cittadina qua vicina. La sua macchina è andata. Non preoccuparti, saremo di ritorno prima che tu te ne accorga.
Però dovresti cucinare qualcosa per il bambino- mangia di tutto, ma dovrebbe esserci una confezione di polpette surgelate, nel freezer. Preparagliene tre o quattro, e fagli bere un po’ d’acqua (non fredda!).
Trevor”
- Ma per chi mi ha preso? – avevo sussurrato a Philip, mentre lo prendevo in braccio e lo portavo con me in cucina. Gli avevo aggiustato la camicina bianca a maniche corte, e poi l’avevo guardato mentre suggeva un lembo del colletto a quadretti gialli e azzurri.
Il naso di Emily, leggermente elfico. La bocca piccola e piena, che non avevo visto a nessuno della famiglia ma che non era certo di Trevor. I miei occhi verdi, ma più intensi e meno spenti, anche se un cupo bagliore li attraversava mentre mi squadrava a sua volta.
Avevo ripensato alla mia infanzia, alle foto appese nella cucina di casa mia, ai miei ricordi confusi e un po’irrazionali. I miei occhi erano brillanti, ma una punta di cupezza era sempre presente.
Ero stato triste da bambino? Non credo. Lo ero stato da ragazzo? Neanche. Lo ero da qualche anno? Assolutamente e incondizionatamente.
- Iangi, zio? –
Mi ero asciugato una lacrima e poi gli avevo sorriso, tirando su con il naso.
–No, zio sta bene-
E in quel momento avevo sperato che fosse vero. O che lo sarebbe stato da lì in poi.Quando Emily era tornata, ci aveva trovati seduti sul tappeto d’erba, sotto al primo ulivo vicino alla cancellata d’ingresso.
Le pieghe gentili dell’abitino di chiffon color porpora sembravano marmellata di fragole, e ad ogni movimento lasciavano scoperti alcuni centimetri di pelle abbronzata, che si intonava perfettamente alle scarpe bianche e verdi di pelle.
- Quella macchina è veramente uno schifo- stava sbraitando contro Trevor, allargando le braccia con fare arrabbiato, proprio come faceva da piccola.
- Pensavo che sarebbe stata perfetta per te. Pensavo che…-
- Cosa? Che mi avrebbe portata nel mondo degli unicorni, dove ti nascondi ogni volta che litighiamo? –
- Veramente…-
- Cresci, Trevor- aveva sibilato, primo di venirci incontro, cambiando totalmente espressione.
-‘Giorno, No’. Vedo che hai fatto amicizia col diavoletto-
Detto questo si era seduta accanto a noi sull’erba e gli aveva scompigliato i capelli neri, tagliati a caschetto, emettendo un sospiro sommesso.
Avrei voluto chiederle cosa aveva combinato il suo fidanzato, ma non mi sembrava dell’umore adatto. Avevo ricordato con una certa sorpresa la prima volta che si era lasciata.
Era più bassa, con meno curve e sicuramente meno matura e bella; anche se, a modo suo, lo era sempre stata. La ragazza più bella della scuola, della classe di ballo, la più aggraziata e sciolta. La sorella del famoso Noah Wilbur.
Era tornata da scuola in lacrime, e mi si era fiondata tra le braccia. A quell’epoca avevo sei anni, lei dodici. Mi aveva trascinato in camera sua e mi aveva fatto giurare che sarei diventato un ragazzo e poi un uomo migliore di tutti quelli che conosceva, soprattutto di nostro padre. E io, piccolo neofita dell’amore, avevo annuito.
Quel giorno, mentre mi guardavo con occhio cinico, avevo realizzato che avevo mantenuto la promessa, ma solo fino a che non avevo incontrato chi mi aveva fatto perdere la testa, chi mi aveva fatto fare le cose peggiori. Chi avevo amato più di qualunque cosa al mondo.
- A che stai pensando, fratellino? –
Avevo scrollato le spalle, poi avevo tirato fuori il mio sorriso più seducente.
- Alla prima volta che ti sei lasciata-
- E cosa c’entra, adesso? – mi aveva risposto, mentre imboccava Philip con l’ultima polpetta rimasta, e aveva lanciato uno sguardo rabbioso e sfuggente al fidanzato che accarezzava con aria afflitta Robin Hood. Potevo sentire le parole sussurrate in lontananza al cavallo, accompagnate da qualche sospiro disperato.
- Che cosa devo fare per farla stare bene? – stava dicendo – Sin da quando l’ho conosciuta non ho voluto altro se non lei e il figlio che aspettava. Io la amo. Ma lei no-
Aveva ragione, il povero Trevor. Lei non l’amava, e forse lui non lo meritava.
Emily era scoppiata a piangere – Noah, tu non capisci quanto sei stato fortunato-
- Fortunato?!- la mia voce si era alzata di un’ottava involontariamente. – Fortunato a realizzare il mio sogno e tutto quello che avrei mai potuto immaginare, intendi. Non a vedere morire il mio unico amore-
Lei aveva appoggiato la fronte contro la mia, e le sue lacrime calde erano scivolate sui miei zigomi.
– Almeno tu hai amato-
-Io amo- avevo risposto con un sussurro.Okay, questo é il secondo capitolo della mia storia.
Ringrazio Sabrina_Verardi per la recensione e le nuove copertine *.*
Comunque, vorrei conoscervi meglio.
Colore preferito?
Il mio é il nero ❤Un bacio,
Joxxx
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Young & Unclean - Giovani e Impuri
Lãng mạnNoah ha 17 anni e vive a Los Angeles. Fa parte di una band insieme a tre suoi amici, e decidono di partecipare ad un talent show. Durante lo svolgimento il batterista, Dean, decide di uscire per la troppa tensione, e i giudici sono costretti a trova...