Capitolo 2

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La mattina dopo, Phoebe si alzò tardi. Aveva trascorso una nottata infernale, quegli occhi azzurri enigmatici continuavano a tormentarla. Aveva bisogno di un'aspirina, doveva tornare alla normalità. Phoebe non riusciva a spiegarsi come un ragazzo qualunque le facesse questo effetto. Non sapeva spiegarsi inoltre, perchè, una ragazza fredda come lei potesse pensare così tanto ad una persona sconosciuta. Non poteva permettere che, una persona che non le aveva mai rivolto la parola, demolisse le mura che lei, con cura straziante, aveva costruito per proteggersi dal mondo. Phoebe odiava sentirsi debole. Odiava piangere. Odiava tuttociò che le ricordava il passato. Quando pensava a tutti i suoi sbagli, si sentiva sprofondare nell'abisso. Le persone che erano entrate nella sua vita, l'avevano fatta piano piano a pezzi. Andando via, si erano portarti con loro un po' di lei, lasciandola vuota e sola. Odiava le promesse. Erano solo illusioni. E lei, di illusioni ne aveva avute troppe. Non si ricordava come si faceva ad amare. Non sapeva cosa voleva dire essere amati. Non credeva nel 'per sempre'. Nemmeno tra i suoi genitori era durata. Gli umani si ingannavano con le proprie mani. Si imbottivano di emozioni, sentimenti, false speranze e per loro era una vita perfetta. Provava pena nei loro confronti. Phoebe si chiese il perchè di tutti questi pensieri negativi. Si rimproverò. Da quando le interessava? La sua vita era tutto al negativo.

Come ogni giorno in casa Stone non c'era nessuno. Sua madre era a lavoro e, il suo patrigno in giro per il mondo, forse in Europa. Non le importava. Uscì di casa. Aveva voglia di disegnare. Camminò senza meta sotto un cielo che minacciava ancora neve e arrivò in un parco. Era un posto magico. Phoebe rimase a bocca aperta. Alberi nudi punteggiavano il parco reso bianco dalla neve caduta il giorno prima. A qualche decina di metri davanti a lei si innalzava maestoso un grande pino. Persino a quella distanza riusciva a percepire il forte odore emanato da esso, che le pungeva il naso. Solo dopo qualche minuto si rese conto della presenza di un uomo che, perso nella calma di quel freddo pomeriggio, guardava un punto indefinito davanti a se. Decise di ritrarlo, rimanendo a debita distanza per non disturbarlo. Mentre inziava a fare lo schizzo, si paragonò alla matita tra le sue dita. Lei era una semplice matita, che poteva essere cancellata senza difficoltà. Non era nulla di speciale. Quanto si sbagliava. Mentre al mondo c'erano persone che potevano essere paragonate ad indelebili, forti e potenti, lei era debole e sola. Nessuno la conosceva, era un'esile fantasma che passava le sue giornate emarginata da tutti. Ormai non le faceva male più di tanto. Aveva imparato a sopravvivere ad ogni pugnalata. Era fatta più di cicatrici che altro. Lei voleva essere forte, ma non ci riusciva.

Nash quella notte non chiuse occhio. Miriadi di pensieri creavano scompiglio nella sua testa. Come venti creavano vortici, uragani, vere e proprie tempeste che lo inondavano. Nonostante questo, lei era il centro di tutto. Lei era il sole. Ogni pensiero si ricollegava a lei. Il giorno prima non l'aveva riconosciuto. Non era molto famoso, ma gli era già capitato che qualche ragazza lo fermasse per una foto o un autografo. Quella ragazza lo attirava. Era così diversa, ma così uguale a lui. A quei pensieri Nash sorrise come un'idiota. Non si poteva lamentare, aveva una bella vita. Molti amici, una famiglia che gli voleva bene e stava diventando famoso. Suo papà continuava a ripetergli che avrebbe avuto una carriera brillante. Lui ci sperava. Nonostante avesse tutto, non era completamente felice. Si sentiva incompleto, incompreso ed incredibilmente solo. Era circondato da persone finte e superficiali. Odiava essere al centro dell'attenzione di tutti quei burattini di legno. E odiava ancora di più se stesso, perchè a volte, ci si trasformava pure lui. Per questo cercava di passare da solo più tempo possibile. Da solo si sentiva un po' meno solo. Per Nash questa frase significava molto.

Era pomeriggio quando decise di uscire, nonostante il freddo amava stare all'aria aperta. Vicino casa sua, si trovava un parco che d'inverno era quasi sempre deserto. Infatti anche quel pomeriggio l'unico era lui. Era un posto sacro per lui. Fin da bambino il grande pino in mezzo al parco era il suo luogo preferito. Passava giornate sotto esso. Poi, l'odore pungente del pino riusciva a soffocare ogni suo errore. Si sedette con la schiena appoggiata al grande tronco e chiuse gli occhi, e come la notte appena trascorsa, apparve lei. E nemmeno il forte odore del pino riuscì a soffocare il profumo di lavanda di quella ragazza. Nei suoi occhi era riuscito a scorgere solo tristezza e rabbia. Nessuna traccia di felicità. Sembrava spenta, e solo questo pensiero lo rattristava. Il frusciare del vento si mischiò ad un altro rumore. Erano dei passi. Tenne comunque gli occhi chiusi, era solo una persona di passaggio. Chiunque con un po' di sale in zucca non si sarebbe fermato in un posto così desolato. Il rumore del vento ritornò ad essere l'unico. I pensieri continuavano a creare tormente nella sua testa, ed ognuno di essi venne affidato al pino, che come ogni volta li prendeva e custodiva. Passò il tempo, era tardi. Doveva tornare a casa. Aprì gli occhi. Girò la testa e rimase pietrificato. Una ragazza con il capo chino su un foglio stava disegnando. Non poteva essere lei. Era impossibile. Non doveva illudersi. Si alzò e si incamminò verso la panchina dov'era seduta la ragazza. Quando fu abbastanza vicino a lei per essere sentito, rallentò il passo. Voleva essere sicuro che non fosse lei. Sentendo i suoi passi, la ragazza alzò lo sguardo. Due occhi neri si posarono su di lui. Era lei. La ragazza che aveva mandato in confusione la sua testa per tutto il giorno. Si guardarono per qualche istante, e poi Nash abbassò lo sguardo sulla piccola tela. Aveva dipinto lui. Era felice. Riportò lo sguardo su di lei e le sorrise. Le labbra della ragazza si incurvarono leggermente. Non sorrideva spesso. Lui, con il sorriso stampato sul volto continuò a camminare. Quando gli occhi della ragazza si erano incatenati con i suoi era riuscito a scorgere sfumature di nuove emozioni, stupore e felicità. Erano deboli, e quasi invisibili, ma sapere che erano nate grazie a lui lo riempiva di felicità.

Phoebe non poteva crederci.
Lo aveva rivisto.
Le aveva sorriso.
Gli aveva sorriso.
Il suo sorriso. Il suo sorriso era bellissimo. Era riuscito a scaldare quel freddo paesaggio, come un piccolo sole. Stavolta si voltò. Lo ammirò. Era bellissimo. Senza rendersene conto si era alzata e gli stava correndo dietro. Doveva parlargli. Quando fu abbastanza vicino, allungò la mano per picchietargli su una spalla. Era molto alto. Quando toccò la sua felpa sentì una scossa, un calore le irradiava il petto. Forse era felice. Il ragazzo sussultò. Tutto d'un tratto si sentì piccola. Quando il ragazzo si voltò rimase senza parole. Nonostante avesse già visto i suoi occhi, la loro bellezza la spiazzavano ogni volta. Un misto di incredulità e gioia si fecero spazio in quei due piccoli oceani come onde, e lei sorrise. Con la mano tremante gli porse il dipinto.
-Ehm...- balbettò.
Lui le sorrise. Era magnifico.
-Tieni, spero ti piaccia...non è un granché però...ehm...- gli porse la tela.
Lui fece un sorriso ancora più grande.
-Grazie, è bellissimo.- Disse
La guardò, e lei si sentì nuda sotto il suo sguardo.
-Ci vediamo domani.- Se ne andò lasciandole un ultimo sorriso.
Lei ancora tremante, incominciò a camminare verso casa sua. Cosa le era preso? Perché gli aveva dato un suo dipinto? Non lo sapeva, e si sentiva felice. O almeno pensava ci si sentisse così quando si era felici. Che senso aveva quel 'ci vediamo domani'? Ancora non lo capiva. Ma di una cosa era certa. Domani sarebbe tornata in quel parco.

Non lasciarmi andare. ||Nash Grier||Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora