Capitolo 1

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"Paige parlami apertamente e dimmi cosa senti"

Cosa sentivo io?
Cosa ero io?
Cosa era la vita per me?
Quali erano i miei sogni?
Che prospettive avevo?
Come immaginavo il mio futuro?
Perché ero divenuta quella ragazza?

Domande, ecco cosa erano!
Semplici domande che però, per me, non riuscivano a prendere nè un senso e nè una misera forma.
Ogni risposta sembrava lontana ed impossibile, irraggiungibile come una stella, come il sole ed io iniziai ad odiare le stelle, ad odiare il sole, odiai la vita ed odiai me stessa per come ero.
Mi odiavo perché ero debole, non mi sentivo forte abbastanza ed ero divenuta preda di un ricordo passato senza neanche rendermene conto.

Io odiavo il mondo, ma non era il mondo ad essere sbagliato per me. Ero io che non ero adatta a lui. Ero io che non mi sentivo adatta a viverci dentro, perché avevo come l'impressione che tutto ciò che io toccassi, diventasse istantaneamente grigio, si tingesse di scuro. Avevo come l'impressione di ungere e rendere lugubre ogni cosa.
Ogni piccola cosa bella riusciva a divenire insignificante fra le mie mani.
Allora volevo spegnere il mondo, volevo che la notte fosse eterna, perché io nella notte ci sparivo, mi mimetizzavo e mi ci perdevo come un ago in un pagliaio.
Perché nel buio affondavo le mie lacrime e le mie pene. Nel buio il mio vuoto sembrava coperto, riuscivo a nasconderlo e per un attimo a farlo scomparire.
Almeno io mi illudevo che fosse così.
Si, mi illudevo e mi piaceva illudermi sul fatto che dietro la notte mi ci potevo celare, perché a volte è molto più facile illudersi che vedere bene in faccia la realtà, una realtà apparentemente normale nella sua monotonia e nella sua solitudine, ma il problema era la testa. La mia testa tormenta da quel lontano eppure, così imponente e loquace passato.

Nel mio cervello erano rimaste impresse le immagini di una giornata. Come un fermoimmagine.
Qualcuno aveva cliccato sul tasto pausa e così i miei pensieri erano rimasti bloccati in quell'istante, in quel momento, in quei pochi e fottutissimi minuti, che seppur pochi, avevano cambiato per sempre il corso della mia vita e condannato la mia esistenza.

Quante volte provai a superare quel trauma.
Quante volte provai a dimenticare, a ricominciare da zero, come se nulla fosse mai successo, ma è impossibile far sparire un pezzo del tuo passato, perché quel pezzo, seppur piccolo mi aveva resa diversa dalle altre.
Quel pezzo così piccolo aveva avuto delle conseguenze enormi su di me, sulla mia vita, sulla mia testa.
Quel pezzo così piccolo, mi aveva resa grigia e triste, aveva oscurato i miei limpidi pensieri.
Quel pezzo così piccolo era riuscito a farmi desiderare di smettere di vivere, di non provare nemmeno a reagire ed andare avanti.
Quel frammento della mia adolescenza era riuscito a farmi fare i pensieri più brutti che una giovane ragazza potesse mai fare.

Vidi il mio bianco e la mia innocenza scivolarmi via di dosso. Vidi la mia spensieratezza avvicinarsi al nero più sporco e fondersi col lui repentinamente fino a diventare una cosa sola, fino a divenire immenso grigio.
Così io cominciai a sentirmi spenta e cupa.
Il mio stato d'animo da allora si colorò di scuro, ed il grigio divenne il mio colore più felice, perché quando stavo male e avevo voglia di non pensare, di non ricordare, mi coloravo di rosso, un rosso intenso e tetro, così tetro da far paura, ma a me piaceva quel rosso, perché quel colore che sgorgava dalla pelle graffiata, anestetizzava i dolori dell'anima.
Era il mio unico modo per dimenticare almeno per un istante, era il mio modo per illudermi che il dolore che provavo non era morale, ma era un semplice dolore fisico che prima o poi sarebbe scomparso con una crosticina sulla pelle, nulla di più.

Mi illudevo. Si, io stupidamente mi illudevo per sentirmi meglio anche se io meglio non stavo, ma continuavo a illudermi che fosse così.

"Paige mi ascolti?"

Continuava a ripetermi quella donna dai lunghi capelli biondi, che le cadevano lisci sulle spalle.
I suoi occhi mi scrutavano e penetravano i miei nella vana speranza di vederci i pensieri che concepivo, e di conseguenza scoprire cosa frullava nella mia tormentata mente.
Il suo viso concentrato, le sue guance paffute e il camice bianco le davano quell'espressione seria che tutti gli psicologi assumono quando analizzano gli atteggiamenti dei propri pazienti.

Ed io ero lì immobile, con le gambe incrociate, i gomiti appoggiati sui braccioli della poltroncina rossa e pensavo che non avevano senso le sue domande, non aveva più senso andare a fare delle sedute con una donna di cui io sapevo solo il nome.
Un nome difficile da ricordare, per altro....
Lei non poteva pretendere di farmi cambiare opinione sulla vita, lei non poteva pretendere che con quattro parole potesse rendere libera la mia testa.
Lei non poteva pretendere che io parlandone e sfogandomi con lei risolvessi tutti i miei problemi.
Lei non poteva assolutamente pretendere di riuscire ad arrivare dove nessuno era stato in grado.
Nessuno poteva riuscirci. Solo io potevo, potevo se avessi voluto e se mi fossi sforzata di più.

No. Lei come tutti gli altri non poteva, ma ero anche io che non glielo permettevo.
Ero anche io, che in un certo senso mi ero arresa, arresa a me stessa.

Salvee! Allora questa è la prima vera storia che scrivo, perché le due precedenti erano fanfiction.
Come avete potuto notare, alla protagonista, Paige, è accaduto qualcosa in passato che non è riuscita a superare.
Cosa le sarà successo? E soprattutto vi intriga questa storia?
A voi le ardue risposte.
Bacioni.

Save me (#Wattys2016)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora