Capitolo 3.

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Passarono esattamente cinque settimane. Cinque fottutissime settimane. Cinque fottutissime settimane infernali.
Le mie giornate erano tutte uguali: la mattina mi alzavo presto e mi ritrovavo subito in compagnia di Robyn, che mi aiutava a fare colazione. Successivamente mi faceva fare un giro per l'ospedale sulla sedia a rotelle per farmi prendere un po' d'aria.
E da quel momento in poi iniziavano le attività di riabilitazione con i dottori. E da quel momento iniziava la mia agonia. E da quel momento iniziavano a torturarmi.
Ogni volta che provavo a camminare, a muovere le braccia, o a parlare in modo corretto e non ci riuscivo mi disperavo. Mi abbattevo. Dicevo a me stessa che probabilmente tutti quei tentativi non sarebbero serviti a nulla. Dicevo a me stessa che era inutile continuare a provare. Dicevo a me stessa che probabilmente avrei passato tutto il resto della mia vita in quell'ospedale.
Tutti mi incoraggiavano. Dai dottori alle infermiere. Compresa Robyn. Mi ripetevano tutti le stesse identiche, stupide cazzate: "E' solo questione di tempo Elizabeth.. vedrai che ci riuscirai!". Ma io non riuscivo a dare un peso alle loro parole. Ma io non riuscivo a coltivare quella speranza.
Sapevo solo che il mio corpo non reggeva gli sforzi e che continuare a provare non serviva a nulla. Mi stremava soltanto.
E nel momento in cui iniziavo a singhiozzare e a gridare disperata per i miei sforzi vani, mi venivano addosso tutti e iniziavano a farmi lunghi e articolati discorsi sulle mie condizioni di salute. Iniziavano a farmi lunghi e articolati discorsi sul fatto che il mio corpo era rimasto immobile per troppo tempo per riuscire a rispondere ai miei comandi al primo tentativo. Iniziavano a farmi lunghi e articolati discorsi che io dovevo sorbirmi in silenzio per evitare che mi iniettassero un calmante. Iniziavano lunghi e articolati discorsi di cui non me ne importava nulla!
Le loro parole per me erano vuote. Non avevano valore. Non riuscivano nemmeno a consolarmi. Era solo un modo per dare aria alla bocca. Non li ascoltavo minimamente. Anzi, mi abbattevo ancora di più.
Tutti erano convinti di sapere come mi sentivo. Tutti erano convinti di sapere cosa mi passasse per la testa. Tutti erano convinti di riuscirmi a capire. Ma non era così che stavano le cose.
Nessuno poteva capire come mi sentivo. Nessuno poteva sapere cosa mi passasse per la testa semplicemente perché nessuno si era mai ritrovato nella mia situazione. Perché nessuno di quei dottori si era mai ritrovato a combattere contro il proprio corpo per riuscire a muovere un arto. Perché nessuno di quei dottori si era mai ritrovato a combattere contro se stesso per riuscire a pronunciare una stupida fottutissima sillaba.
"Poverina... come la capisco..." sussurravano tra di loro le infermiere quando passavo con la sedia a rotelle nel corridoio dell'ospedale. Erano sempre le stesse identiche parole. Ed io avevo sempre la stessa identica voglia di alzarmi in piedi e di sputargli in faccia, gridandogli contro che la loro pietà la buttavo nel cesso e che non avevano la minima idea di che cosa stessi passando!
Credevano di conoscermi come le loro tasche, ma non sapevano niente di me! Nemmeno io sapevo niente di me stessa! Come potevano loro, dei perfetti estranei, dire di conoscermi?!
E quando mi sentivo sola. Quando piangevo disperata per quella situazione. Quando sentivo il mondo crollarmi lentamente addosso arrivava Robyn. L'unica persona in grado di consolarmi con il suo dolce sorriso. L'unica persona che sentivo veramente vicina in quei momenti. L'unica persona con cui avrei potuto passare ore senza mai stancarmi.
Durante quelle lunghe cinque settimane Robyn mi aiutò a conoscere me stessa. Mi raccontò della mia vita prima dell'incidente. Mi raccontò il modo in cui passavo il mio tempo, i miei hobby, i miei progetti per il futuro, i miei sogni, le mie speranze.
Mi ero diplomata un anno prima perché i miei voti erano veramente eccellenti, ma non ero interessata a proseguire gli studi per la laurea, sognavo il mondo della musica.
Ero in grado di suonare chitarra e pianoforte. Spesso scrivevo delle canzoni che cantavo per mio personale divertimento. Mi sarebbe piaciuto diventare una cantante eppure c'era sempre qualcosa che mi frenava dal lanciarmi nel mondo della musica. Che cosa fosse questo freno non sapeva dirmelo nemmeno lei.
Non avevo mai avuta una vera e propria vita sociale. Niente amici. Nessun ragazzo. Non amavo i rapporti con gli altri. Ero molto introversa. L'unica persona cara che avevo era proprio lei.
I nostri genitori erano morti qualche anno prima ed io e lei vivevamo da sole in una piccola casetta in uno dei quartieri più tranquilli di Holmes Chapel.
I suoi occhi passavano dall'eccessiva luminosità, mentre mi raccontava i momenti felici insieme, all'eccessiva tristezza, quando mi raccontava che cosa aveva dovuto passare negli ultimi tempi.
In particolare mi colpì il suo sguardo durante una delle nostre accese conversazioni. Per la precisione stavamo parlando dell'incidente durante un assolato pomeriggio, sotto il salice nel giardino dietro l'ospedale.
"Un camionista ti ha presa di petto." si era limitata a dire con tono di odio e disprezzo. Come se parlarne la infastidisse. Come se parlarne fosse inutile.
Non mi aveva nemmeno guardata negli occhi nel pronunciare quelle parole così fredde e amare. Parole che mi spinsero a tacere definitivamente sull'argomento. Non le chiesi nient'altro a riguardo.
Ricordavo il suo sguardo freddo quando aveva sollevato il viso. Aveva gli occhi lucidi, come se avesse voglia di versare un paio di lacrime, ma non lo fece. Chissà per quale motivo non lo fece.
Ero entrata in coma esattamente il quindici Gennaio e avevo aperto gli occhi il quindici Luglio. Erano passati esattamente sei mesi. Sei lunghissimi mesi.
Mi raccontò la sua disperazione nel vedermi stesa su quel lettino. Mi raccontò della sua depressione. Della sua solitudine. Della sua sofferenza. Del suo tempo passato a vedere vecchi filmini di famiglia, nei quali giocavamo e ridevamo insieme. Del suo tempo passato a sfogliare vecchie foto. Del suo tempo passato all'ospedale con la solita speranza che aprissi gli occhi. Speranza che andava svanendo giorno dopo giorno.
Mi raccontò della sua paura. Aveva paura che io non mi svegliassi più. Aveva paura di non riuscire più a vedere il mio sorriso. Aveva paura che io la abbandonassi così come avevano fatto i nostri genitori. Così come l'avevano abbandonata tutti i suoi amici nell'arco di quei lunghi sei mesi.
Era rimasta sola. Aveva solo me. Ed io avevo solo lei.
A volte mi chiedevo se non avesse un lavoro. A volte mi chiedevo se non avesse degli hobby. A volte mi chiedevo se non avesse delle passioni da coltivare. A volte mi chiedevo se non avesse di meglio da fare piuttosto che venire in ospedale ogni giorno a passare il suo tempo con me.
Era ovvio che la risposta a quella domanda fosse no. E così ogni giorno era lì. Con me.
Più la guardavo e più mi rendevo conto che persona straordinaria fosse. Aveva una forza incredibile. Spesso mi ritrovavo a chiedermi come avesse fatto a sostenere quella situazione per sei lunghi mesi. Spesso mi ritrovavo a chiedermi dove trovasse la forza di venire a trovarmi ogni giorno e guardarmi piangere dopo gli esercizi di riabilitazione che mi obbligavano a fare.
Riconoscevo che la mia compagnia non era delle migliori i primi tempi: passavo il tempo a singhiozzare, oppure stavo in silenzio, fissando coloro che mi stavano attorno. Stare con me era senza dubbio angosciante.
Tuttavia, nonostante tutto ogni mattina, quando aprivo gli occhi, lei c'era. Lei era lì e mi sorrideva. Sempre.
Sorrideva anche se sapevo perfettamente che stava male tanto quanto me per quella situazione. Sorrideva e iniziava a raccontarmi quello che aveva fatto prima di arrivare in ospedale. Sorrideva e iniziava a fare battute squallide semplicemente per farmi ridere. Anche se spesso non lo facevo.
E più scorreva il tempo più mi faceva sentire viva.
Quando vedevo il suo sorriso avevo la consapevolezza che valeva la pena lottare ogni giorno contro il mio corpo per potermi muovere. Era incoraggiante. La sua sola presenza era davvero incoraggiante. La sua sola presenza mi rendeva più forte. Più fiduciosa.
Potevo fidarmi di lei? Dovevo. Non avevo altra scelta. Non avevo nessun altro su cui fare affidamento.
Una cosa era certa: senza di lei quel luogo sarebbe stato l'inferno.
Passate quelle cinque lunghe settimane ero pronta a mandare a quel paese quel posto e a tornare a casa con mia sorella.
C'era voluto tanto sforzo e una quantità di forza di volontà inimmaginabile per riuscire a camminare in modo corretto, ma ci ero riuscita. Ci ero finalmente riuscita!
L'unica cosa che mi preoccupava seriamente era la mia memoria. Ascoltavo sempre con enorme attenzione Robyn quando mi parlava della mia vita e di tutti i guai che combinavo, ma nella mia mente continuava ad esserci il buio più totale. In un certo senso mi aspettavo una reazione. Come quelle che avevo quando Robyn mi portava degli oggetti che mi appartenevano. Era come un flash di luce, niente di particolare, ma pur sempre qualcosa.
Mi aspettavo qualche flash-back. Come quello che avevo avuto quando Robyn si era presentata. Invece nulla. La mia mente continuava a essere vuota. Io ero vuota.
Mi ritrovai a sistemarmi davanti allo specchio del bagno dell'ospedale.
Mi piaceva molto passare il tempo ad osservarmi. Non ero ancora abituata a vedere i lineamenti del mio viso con così tanta chiarezza. Era un modo per scoprire qualcosa in più su me stessa senza il bisogno che qualcuno me lo raccontasse.
Non mi limitavo a guardarmi esteriormente. Era come se stessi osservando la mia anima.
Avevo i capelli castano chiaro. Erano mossi e diventavano morbidi boccoli nelle punte. Non erano né troppo lunghi né troppo corti. Perfetti, a mio parere. Mi piacevano.
Gli occhi erano di un castano chiaro.
Le labbra erano carnose e custodivano una fila di denti perfetti e bianchi.
Mi venivano i brividi se provavo a pensare al colore della mia pelle la prima volta che avevo osato guardarmi. Ero pallidissima. Di un bianco cadaverico. In un secondo momento avevo preso colore, ma la mia pelle rimaneva ugualmente di una carnagione molto chiara.
Quel giorno indossavo un paio di pantaloni in cotone colorato turchese, una maglietta a maniche corte bianca e un paio di ballerine dello stesso colore. Era roba che mi aveva portato Robyn direttamente dal mio armadio.
Sistemai il ciuffo dietro l'orecchio e passai sulle labbra un altro velo di burro cacao. Sciacquai le mani, imbrattandole più volte con il sapone, e le asciugai. Volevo liberarmi di quell'orrendo odore ospedaliero che emanavo. Presi la borsa azzurra che avevo poggiato sul lavandino.
Ero pronta! Ero pronta ad abbandonare quell'orrendo ospedale! Ero pronta per abbandonare quell'inferno! Non avevo desiderato altro in quelle ultime settimane.
Uscii velocemente dal bagno e attraversai il corridoio dell'ospedale con il mio passo svelto. Non avevo la minima voglia di fermarmi non solo perché la voglia di fuggire da quel posto mi stava uccidendo, ma anche perché vedere le persone malate mi metteva un angoscia tremenda. Non volevo pensare al fatto che poco tempo prima anche io ero tra quelle persone.
Arrivai nel grande atrio e scorsi immediatamente la figura di Robyn mentre parlava con uno dei dottori. Aveva in mano il borsone con le mie cose.
Mi fermai di scatto. Non avevano la minima intenzione di sostenere una conversazione con uno dei dottori. Mi avevano già riempito di raccomandazioni durante l'ultima visita di controllo e non volevo sentirne altre dalla loro bocca!
Mi appoggiai al muro vicino alle macchinette del caffè e aspettai scorgendo di tanto in tanto la scena: sarei andata da lei solo quando quel dottore sarebbe sparito dal mio campo visivo.
Iniziai ad osservare la gente che passava, i dottori che si concedevano una pausa prendendosi un caffè, le infermiere che correvano avanti e indietro per i corridoi per fare chissà che cosa, e regalavo a ciascuno di loro un sorriso sghembo.
Quando finalmente riuscii a scorgere il dottore che si allontanava raggiunsi con passo svelto Robyn. Indossava una paio di jeans chiari,una canotta fucsia e un paio di Nike Blazer dello stesso colore della canotta.
Mi accolse con uno dei suoi soliti sorrisi e allargò le braccia facendo scivolare per terra il borsone che teneva in mano. Capii al volo le sue intenzioni e mi gettai letteralmente tra le sue braccia, che mi avvolsero con dolcezza. Mi sentivo estremamente protetta tra le sue braccia. Profumava ancora di lavanda, esattamente come il primo giorno.
"Sei pronta?" mi sussurrò sciogliendo quel dolce abbraccio.
Le sorrisi ed annuii.
Raccolse il borsone da terra ed insieme ci avviammo verso l'uscita. La luce del sole mi colpì prepotente gli occhi. Strizzai gli occhi e riuscii a scorgere il cielo azzurro e le numerose macchina parcheggiate davanti all'ospedale.
Abbassai lo sguardo. Lasciai scivolare la mano destra dentro la borsa ed estrassi un paio di occhiali da sole Ray Ban azzurri. Li indossai velocemente.
"La macchina è da questa parte." disse Robyn facendomi un cenno con la testa e indossando a sua volta gli occhiali da sole.
Annuii.
Attraversammo il parcheggio e raggiungemmo una Citroen c3 nera. Robyn tirò fuori le chiavi dalla tasca posteriore dei suoi jeans e aprì la portiera. Entrai velocemente in macchina e chiusi la portiera. Un secondo dopo entrò anche lei. Chiuse la portiera, infilò la chiave, allacciò la cintura e mise in moto la macchina. Partimmo. Allacciai a mia volta la cintura e sfilai gli occhiali da sole abbandonandoli in un punto non ben definito del cruscotto. Lanciai la borsa sul sedile posteriore e abbassai il finestrino lasciando che l'aria fresca e frizzante penetrasse all'interno del veicolo.
I capelli iniziarono a svolazzare finendomi sul viso, ma la cosa non mi dava affatto fastidio. Era una sensazione di libertà impagabile. Non mi sentivo così libera da quando avevo fatto quel sogno in cui volavo nel cielo notturno.
Forse era una cosa banale rallegrarsi perché un po' di vento mi stava scompigliando i capelli, ma, per me, le cose più semplici erano quelle più belle. Erano quelle che riuscivano sempre a strapparmi un sorriso. Erano quelle più speciali.
Ammirai il paesaggio esterno che si muoveva velocemente con un sorriso enorme sulle labbra. Holmes Chapel era bellissima. Era evidentemente una cittadina tranquilla. Il tipo di posto dove andresti se avessi il bisogno di rilassarti per un arco di tempo non precisato.
Squadrai ogni singola cosa che mi passava sotto il naso: alberi, case, persone, negozi. Cercavo di riportare alla memoria quei posti. Cercavo di riportare alla memoria quei posti senza nessun risultato. Purtroppo.
"Vuoi prenderti la febbre dopo essere uscita dall'ospedale?" rise Robyn alzando il mio finestrino.
Mi voltai di scatto con un sorriso enorme stampato sul viso.
"Manca molto per arrivare?" chiesi con impazienza.
Non vedevo l'ora di vedere la mia casa. Non vedevo l'ora di vedere la mia stanza. Non vedevo l'ora di entrare in contatto con tutti gli oggetti che mi erano appartenuti in passato.
Speravo vivamente che mi aiutasse a recuperare memoria.
"Direi di no. Tra dieci minuti dovremmo arrivare." sussurrò non scostando il suo sguardo dalla strada davanti a noi.
Sbuffai abbandonandomi come un peso morto sul sedile. Avevo aspettato per cinque settimane prima di uscire da quell'ospedale per tornare a casa e in quel momento anche dieci minuti mi sembravano un infinità di tempo. Era troppo tempo!
"Impaziente?" rise Robyn notando la mia reazione alle sue precedenti parole. Annuii e lei rise ancora una volta.
La sua reazione era solo l'ennesima conferma. La conferma che nessuno poteva capirmi. Non poteva capirmi perché non sapeva che cosa provavo. Non sapeva dell'angoscia di non conoscere nemmeno le proprie origini. Effettivamente era la persona che sentivo più vicina,ma nemmeno lei poteva capirmi in pieno. Purtroppo.
Nessuno avrebbe mai compreso in pieno il mio stato d'animo perché nessuno sapeva che cosa stavo passando. Le mie emozioni erano un mix tra la paura, la tristezza e la curiosità.
Non conoscere le cose mi spaventava in un certo senso. Non importava di che natura fossero i fatti: mi spaventavano e basta!
Passai quegli interminabili dieci minuti a girarmi i pollici. A giocare con i riccioli che mi cadevano sulle spalle. A contemplare il paesaggio esterno. A torturare la mia testa con milioni di domande. Domande che un secondo dopo sparivano totalmente dalla mia testa. Mi sentivo tremendamente confusa. Il mio sguardo era perso nel vuoto più totale.
Robyn premette sul freno dolcemente e la macchina si fermò. Alzai di scatto lo sguardo e i miei occhi incontrarono i suoi due pozzi color cioccolato. Mi fece un sorriso sghembo. Capii che dovevamo essere arrivate. Finalmente eravamo arrivate! Mi voltai di scatto verso il finestrino.
Davanti a me apparve l'immagine di una grande giardino pieno di fiori. Il prato era verde e ben curato ed era racchiuso da una lunga staccionata di legno di ciliegio. Una stradina di ciottoli conduceva all'ingresso di una casetta dai mattoni bordeaux. Quest'ultima si sviluppava su due livelli. Non era molto grande, ma la grande quantità di rampicanti che si sviluppava su di essa la rendeva molto pittoresca. Mi ricordava tanto la casa di una favola. O addirittura delle Barbie.
Slacciai velocemente la cintura che mi legava al sedile. Aprii lo sportello e scesi velocemente giù dalla macchina. Sfiorai per un attimo la scatola della posta su cui dominava la scritta 'The Billington'.
Percorsi lentamente il vialetto di ciottoli dopo aver varcato la staccionata. Cercavo di memorizzare ogni singolo particolare di quel giardino così bello. Particolari che sentivo di conoscere nel profondo, ma che erano totalmente nuovi ai miei occhi.
Mi fermai a metà strada. Proprio al centro del giardino. Fissai per qualche istante la grande porta di legno che c'era davanti a me, a distanza di alcuni passi. Abbassai lo sguardo verso l'erba verde del giardino e scorsi una margherita calpestata.
Il mio cuore iniziò a battere alla velocità della luce per chissà quale ragione. Ansimavo. Il mio sguardo si perse nel vuoto e così come la prima volta l'immagine che avevo davanti scomparve improvvisamente per lasciare spazio a qualcos'altro. Un dei miei flash-back.
Era lo stesso identico giardino,ma davanti a me c'erano due bambini di sette anni circa che giocavano. Il primo era un maschietto con tanti ricci. Non riuscii bene a vedere il suo viso perché era di spalle.
La seconda era una bambina. Aveva gli occhi nocciola e i capelli castani erano raccolti in due codini. Sorrideva e teneva in mano una palla rossa, pronta per tirarla all'amico.
"Avanti Lizzy! Tira!" rise il bimbo riccio e un attimo dopo la piccola lanciò la palla. Quest'ultima finì per colpire in testa il bambino, che, un secondo più tardi, scoppiò in una rumorosa risata.
La piccola si avvicinò all'amico e gli carezzò il viso con dolcezza. Avevo lo sguardo preoccupato. L'amico le strinse la mano e lei sorrise. Un attimo dopo gli scombinò i ricci. Ma il sorriso della bimba scomparve velocemente lasciando posto, nuovamente, a quell'espressione di tristezza. Era dispiaciuta. Era preoccupata di avergli fatto male.
"Ti ho fatto mal-...?" sussurrò la bimba.
E un secondo prima che terminasse la frase permettendomi di sentire il nome del bimbo quell'immagine scomparve riportandomi alla realtà.
Spalancai gli occhi, leggermente scioccata per ciò che avevo appena visto. Era una scena dolce, ma allo stesso tempo non vedevo come potesse essermi utile per recuperare la memoria. Di una cosa ero certa: quella bambina ero io! Non avevo dubbi a riguardo.
Quello era il tipo di reazione che mi aspettavo di avere! Lo stesso tipo di reazione che pretendevo da me stessa mentre Robyn mi raccontava la mia vita, ma che purtroppo non avevo avuto.
Volevo sapere di più. Volevo vedere di più. Volevo rispondere una volta e per tutte a quelle fastidiose domande che mi tormentavano. Rivolevo la mia memoria!
Una mano si posò lentamente sulla mia spalla. Mi voltai di scatto ed incontrai il sorriso di Robyn che mi fece un cenno con la testa. Percorremmo entrambe il resto del giardino fino ad arrivare alla grande porta dello stesso identico legno della staccionata che circondava il giardino.
Sfiorai il legno con la punta delle dita. Sentivo il cuore esplodermi dentro il petto chissà per quale ragione. Forse avevo paura. Forse ero impaziente. Forse ero, in un certo senso, felice.
Il tintinnio delle chiavi mi allontanò dai miei pensieri. Mi feci da parte velocemente e Robyn infilò la chiave dentro la toppa. E dopo un paio di giri aprì spingendo dolcemente la porta, che si aprì con un cigolio.
Un fortissimo e familiare profumo di limone mi investì. L'interno era buio e silenzioso.
Dei brividi iniziarono ad attraversarmi il corpo. Sentivo un vortice nello stomaco e non sapevo se fosse una cosa positiva o meno.
Avevo paura. Avevo paura di entrare. Avevo paura di quello che avrei potuto vedere nei miei flash-back. Avevo paura di conoscere la verità sulla mia vita, ma allo stesso tempo volevo conoscerla.


Angolo mio ^.^
Mi scuso per il ritardo, ma la scuola mi sta uccidendo. Spero questo capitolo vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate.
I luv ya.

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