Pioggia d'acqua

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- Did I do something wrong? -
- I dont' have anyone -


Piove, fuori.
L'acqua scroscia sul tetto di casa mia come se volesse sfondarlo.
Milioni di proiettili bagnati vengono sparati dal cielo senza discriminazione e colpiscono vittime ignare, uscite sprovviste di ombrello.
Sulla finestra della mia camera, le gocce si rincorrono come bambini felici, che giocano ad acchiapparella, ed io ne seguo il percorso col dito.
Piove, fuori, ma anche dentro le mura della villetta accanto alla mia.
Piovono vetri, i cui frammenti affilati lo feriranno di nuovo ed io lo guarderò in silenzio domani a scuola, per non porgli domande che non vuole sentire.
L'eco dei tuoni copre a tratti le urla disumane che filtrano fino a me.
Vorrei correre da lui. Abbracciarlo, rassicurarlo.
Proteggerlo col mio corpo.
Poggio la fronte contro il vetro freddo, che si appanna al contatto con la mia pelle tiepida, e sospiro.
C'è la luce accesa in cucina e l'ombra imponente del padre in piedi davanti le tende serrate.
Gesticola, lancia oggetti contro il muro opposto e so che stanno piovendo altri cocci su di lui. Che si stanno aprendo nuove ferite che non tutti sapranno vedere e che molti fingeranno di non scorgere per timore o indifferenza.
Controllo con un'occhiata stanca il cellulare accanto a me, conscia che non troverò chiamate perse da parte sua, senza riuscire a impedire a me stessa di sperare.
Basterebbe uno squillo di un secondo, un'unica parola in un messaggio, un qualcosa.
Una qualunque cosa.
E nella quiete muta che preannuncia l'ennesimo roboante tuono, quel qualcosa arriva.
Il portone di casa Lahey sbatte violentemente ed una figura d'ombra dai tratti indistinti, che sembrano disegnati con pennellate evanescenti d'acquerello, corre verso la bicicletta appoggiata al lampione lì davanti.
Scatto in piedi, afferro una felpa e mi precipito fuori di casa, ignorando la pioggia gelida e gli abiti che si inzuppano subito.
Corro e tremo, scostando le ciocche fradicie dal viso con impazienza.
Le scarpe da ginnastica di tela scivolano sul marciapiede infangato e affondano con uno sciabordio cupo nelle pozzanghere torbide.
Piove ancora ed io annaspo fra le gocce, raggiungendo senza più fiato il parco.
So che è lì, che si nasconde fra i cespugli come un coniglio impaurito, che piange con sollievo sapendo che il temporale cela le sue lacrime.
La bici, con una ruota ancora in movimento, è accasciata contro lo scivolo azzurro a forma di elefante e di lui nessuna traccia.
« Isaac? » sussurro, guardandomi attorno con gli occhi socchiusi, le ciglia umide.
M'incammino lentamente verso uno degli alberi più grandi, dietro le altalene gocciolanti smosse dal vento, e lo individuo a fatica, rannicchiato sul retro del tronco.
« Isaac. » m'inginocchio di fronte a lui senza toccarlo, per paura che si ritragga. Che si spaventi. Che mi cacci.
Non voglio che mi tema. Non voglio lasciarlo solo. Non voglio andar via.
Lo chiamo di nuovo, bisbigliando come se dovessi svegliarlo piano piano, e lui solleva il viso verso di me con reticenza.
Stringe ancora le ginocchia al petto con le braccia, ma mi fissa incerto con i suoi occhi grigi e annacquati, come il cielo sopra di noi.
« Pulcino, che ci fai qui? » domanda passandosi la mano aperta sul viso, cercando di cancellare il pianto e le tracce di sangue residue dei tagli procurati dal vetro.
Dalla pioggia di vetro.
« Avevo voglia di camminare un po'... » mi stringo nelle spalle e lui mi fa posto accanto a sé, sotto le fronde del maestoso albero che ci protegge in parte dalla tempesta.
« E non potevi aspettare che smettesse di piovere? Sei proprio un pulcino, con le piume arruffate dall'acqua. » mi sorride con dolcezza, prendendo al volo una goccia caduta dalle mie labbra, e poi reclina la testa all'indietro, sulla corteccia.
« Smettila di chiamarmi così. Non sono più una ragazzina, Isaac. » replico brusca, mordendomi l'unghia del pollice.
« Lo so, Violet. Lo so. » dice con tono incolore, chiudendo gli occhi come se faticasse a tenerli aperti.
Sotto lo zigomo destro gonfio, comincia a delinearsi il profilo di un livido scuro.
« E perché continui a chiamarmi in quel modo? »
« Perché è carino e tenero, esattamente come sei tu. Vuoi sembrare forte, ma sei delicata e fragile, dentro. E in pochi conoscono questo tuo lato. »
« Allora sei un pulcino anche tu, Isaac. » dichiaro con un pizzico di divertimento nella voce e cerco la sua mano, per stringerla fra le mie.
Sulla pelle tesa del dorso ci sono frammenti di vetro conficcati nella carne viva accanto a vecchie cicatrici simili.
Ferite mal richiuse sono ovunque sul suo corpo.
La prima volta che l'avevo visto, poco dopo essermi trasferita nella casa accanto alla sua, anni addietro, era raggomitolato dietro una panchina in quello stesso parco, con le unghie delle mani spezzate e insanguinate e la maglietta strappata da segni di cinghia.
« Dovresti disinfettare questi tagli. » asserisco dopo un po' e lui s'irrigidisce, togliendo la mano dalla mia portata.
« E tu dovresti andare a casa. » dice e sembra un singhiozzo.
« No. Non me ne vado. Resto qui con te. »
« Violet... » sospira e apre gli occhi. La pioggia, ora, cade con più lentezza, quasi a rallentatore.
Non fa più rumore; l'unico suono che si sente è lo scalpiccio del mio cuore.
« E' inutile: non ti lascio solo. Non in queste condizioni. »
« E' che non voglio che proprio tu mi veda così, pulcino. Va via ti prego. » ha la voce spezzata, rotta, come i cocci di quelle porcellane che suo padre gli lancia contro.
« Posso chiudere gli occhi, se ti da fastidio che ti guardi. Basta che non mi chiedi di andarmene. » strizzo le palpebre forte, come facevo da bambina quando avevo paura del mostro verde con i tentacoli, che ero sicura si nascondesse sotto il letto.
Isaac, poco dopo esserci conosciuti, mi confidò che quello che spaventava lui aveva le sembianze di suo padre.
Io avevo riso come se fosse stata una barzelletta e lui non mi aveva rivolto parola per mesi, fino a quando non ero andata a casa sua con un dolce fatto da mia madre per farmi perdonare e, dalla finestra, avevo intravisto anche io il suo mostro.
« Perché? » domanda lui dopo un po' e le sue nocche rovinate mi accarezzano la guancia.
« Cosa? »
« Perché ti ostini a restare? » il suo respiro solletica la mia pelle umida e mi provoca un brivido caldo.
Perché ti amo.
« Perché voglio proteggerti. Sei un pulcino, ricordi? »
« E chi proteggerà te, poi? » le sue labbra sfiorano il mio collo mentre parla.
Poi si fermano, premendo appena sotto l'orecchio.
Sta piovendo di nuovo, le gocce si fanno strada fra le fronde dell'albero e atterrano a caso fra me e Isaac. Fra le nostre mani che lui ha intrecciato. Fra le nostre bocche che si sono cercate e, infine, trovate con incredulità.
E baciare lui, freddo e bagnato, è come baciare la pioggia.
Pioggia d'acqua, non di vetro.
« Sai di pioggia, Violet. Mi piace. La pioggia, sai, lava via il sangue. » poggia la fronte contro la mia e sorride.
E' uno spicchio di sole fra le nubi, un'alba timida che nasce a fatica.
« Anche tu sai di pioggia, Isaac. Ma a me non è mai piaciuta molto...fino ad oggi. »

Pioggia di vetro || Isaac LaheyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora