Resto a fissare il filamento incandescente della lampadina impolverata sopra la mia testa per diversi minuti. O forse diverse ore. O anche diverse intere vite.
Guardo quel chiarore pallido, che dipinge i contorni del seminterrato di un giallo annacquato, e tremo.
Tremo come se avessi freddo, come se il sangue mi si fosse ghiacciato nelle vene e stessi morendo per assideramento poco a poco.
Ho smesso di respirare nel momento in cui ho compreso che Isaac non era più davanti a me e ancora non riesco a ricominciare.
L'ossigeno nell'aria se l'è portato via lui ed io tremo sempre di più, le mani strette a pugno lungo i fianchi e gli occhi bagnati.
Bagnati di luce ocra, la stessa che dava ai suoi occhi azzurri una sfumatura verde, e lacrime.
Lacrime che avevo represso in sua presenza e che ora non so tenere a freno.
Non ne ho più motivo.
« Sii felice. » aveva detto.
« Sii felice. » ripeto ora io ora sottovoce, come una cantilena. Come se potessi diventarlo davvero solo borbottando quella frase a denti stretti.
Poi, in quell'immobilità straziante, un suono.
Un suono dolce, pacato, che però si ripercuote nel silenzio e sembra quasi un grido disperato.
La suoneria del mio cellulare, ancora stretto spasmodicamente fra le dita.
E quella canzone -la nostra canzone- è un pugno duro sull'addome che non ho visto arrivare; il colpo finale che mi spedisce k.o.
Sono ginocchioni a terra, quando rispondo.
Piegata su me stessa. Accartocciata. Spezzata.
« Dove diavolo sei? Sono le tre del mattino! »
La voce di Mery è pregna di rimprovero malcelato, preoccupazione evidente e sollievo palese.
Apro la bocca e le rispondo, ma le parole non prendono consistenza.
Ci riprovo, più e più volte, ma è come provare a parlare sott'acqua o con le corde vocali tranciate.
« Violet! Violet! Stai bene? Dove sei? Dimmi qualcosa! » mormora lei, concitata al telefono, cercando di contenere l'ansia che la sta divorando per non svegliare i suoi genitori.
« Sto tor-nando. » riesco, infine, a dire con fatica.
Poi chiudo la conversazione e costringo il mio corpo a tornare in posizione eretta.
Le gambe, però, non collaborano molto: annaspo, mulinando le braccia, e mi aggrappo alla prima cosa che trovo per non cadere.
E le mie dita sfiorano del freddo metallo graffiato.
Il congelatore.
Mi viene voglia di gridare, gridare più forte che posso, come faceva Isaac nelle notti in cui era stato rinchiuso lì dentro.
Mi sembra di starci io, ora, rannicchiata fra la lamiera in attesa dell'alba e del suono liberatorio del lucchetto che scivola fuori dalla cerniera.
Corro fuori, inciampando e rialzandomi senza badare alle sbucciature che mi procuro sulle ginocchia e i palmi delle mani.
L'aria della notte mi accoglie con una frustata gelida in viso, ma non mi fermo; se lo facessi, ho paura che metabolizzerei le parole di Isaac -il nostro addio che sapeva di definitivo- e non voglio.
Ansimo, accelero e le lacrime si freddano sulle mie guance.
Quando ho ripreso a piangere? Ho mai smesso?
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Pioggia di vetro || Isaac Lahey
FanfikcePremessa: LA STORIA NON È MIA, ma di questa ragazza di S T R A N G E G I R L, un'autrice di EFP. Alla fine della intro troverete il link alla storia su EFP e anche il profilo dell'autrice. (Ambientata durante la seconda stagione del telefilm) Tutti...