Capitolo 2 - About V. [2.0]

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E quindi ti hanno assunta!» dice Tiziana tutta squillante, accanto a lei riconosco la voce di Samuele intonare un “Uh-uh!”.
«A-ah» rispondo mentre mi metto un rossetto color fragola. «Inizio domani mattina.»
Non usavo spesso colori tanto accesi prima, ma effettivamente le labbra fosforescenti non mi stanno affatto male.
Recupero un elastico e mi arrotolo i capelli in uno chignon.
«Sono contenta! E tu che eri sicura che hai continuato a ripetere quanto quel colloquio fosse andato male.»
Sorrido. «Il mio colloquio è andato male» confermo, anche se in effetti ha dato frutti molto interessanti
«Beh, io sono contenta, te lo meriti!»
Esco dal bagno a piedi nudi, diretta nella mia camera. «Non ne sono mica sicura» la contraddico. «Ho assaggiato quello che fa l’altro pasticcere, io non sono così brava. Se non mi metto in pari in fretta, finirò per ottenere quella famosa lettera di raccomandazioni fin troppo presto.»
Apro l’armadio e recupero una giacca, la primavera sta faticando un po’ a prendere piede quest’anno. Frustante, la settimana scorsa siamo state da Tezenis, ho comprato delle canottierine così carine… un peccato doverle tenere chiuse in armadio.
«Oh, ma smettila!» sbotta. «I tuoi dolci sono favolosi e impari in velocemente. Sono sicura che con un po’ di esperienza raggiungeresti anche Gordon Ramsey.»
Rido. «Gordon Ramsey è un cuoco, Tiziana» le ricordo. «Non è detto che sia anche un buon pasticcere.»
«È Gordon Ramsey» ripete, come se questo sottintendesse una bravura intrinseca in qualunque campo culinario. È una grande fan di Master Chef.
«Okay» continuò a ridere. «Fingerò che tu mi abbia convinta.»
«Esci stasera? Pensavamo di prendere una pizza al volo e poi…»
«Devo vedere Alberto» la interrompo.
«Ancora?» sbotta annoiata. «Credevo che dopo Francesco…»
Scuoto la testa: non voglio pensare a Francesco. «La scorsa settimana ci siamo sentiti e mi ha chiesto se mi andava di incontrarlo.»
«Ma a te non va» mi accusa Tiziana.
«Non importa.»
Glielo devo, è giusto, Alberto è un bravo ragazzo, il migliore che io abbia mai conosciuto, non ha mai fatto niente per meritare di essere trattato come l’ho trattato io.
La mia decisione non è stata una risposta a qualche sua mancanza.
Né un’azione logica.
Ho fatto solo quello che sentivo.
Solo istinto.
«Perché?» mi domanda Tiziana in un sospiro, lasciando che si manifesti nella sua voce tutto il disaccordo per la mia decisione. «Sai benissimo come finirà.»
Sbuffo. «Perché è tornato a casa e l’ha trovata vuota?» domando sarcastica, lascio la giacca sul letto e mi siedo accanto ad essa.
Sono di nuovo in un lettino da ragazzina, che amarezza…
Quando mi sono presentata davanti alla porta dei miei genitori con le mie valigie e in lacrime, mia madre è quasi morta per lo spavento. Pensava che Alberto mi avesse picchiata, pensava che avessi scoperto un tradimento, pensava una miriade di cose brutte e sbagliate.
Mio padre si è offerto di accompagnarmi in ospedale, alla polizia, sul divano per stendermi un attimo e calmarmi.
Finché non hanno scoperto che la stronza ero io.
A quel punto mia madre mi ha chiesto, una volta sola, se ero sicura di voler restare. Sapevo che era una domanda ben più seria di quello che sembrasse, era una specie di “Lo sai, vero, che poi non potrai più tornare indietro?”.
A occhi bassi e dopo aver preso fiato avevo risposto di sì.
Ero sicura di una sola cosa: io in quella casa con lui tutta la vita non volevo starci.
«Okay, mettiamo anche che il tuo senso di colpa sia giustificato…» inizia.
«Perché non lo è?» la interrompo.
Lei mi ignora. «Cosa hai intenzione di fare? Stare in punizione tutta la vita? Non potevi mica restare lì, se ti eri resa conto che non volevi! Sarebbe stato altrettanto sbagliato nei suoi confronti.»
«Avrei potuto non rendermene conto!» sbotto, imbronciata come una bambina che fa i capricci.
Silenzio.
«Ma ti ascolti?» mi chiede Tiziana saccente.
Sospiro. «Senti, ormai gli ho detto che lo avrei incontrato, devo andare» dico per interrompere la comunicazione più in fretta possibile. Non voglio cercare motivi fittizi per sentirmi meno in colpa, accollare ad Alberto mancanze che non ha: ero una ragazza fortunata, ho deciso che non volevo la mia fortuna.
Folle.
«Mi raggiungi dopo?» butta lì, alleggerendo un argomento altrimenti insostenibile.
«Ci sono ottime probabilità» mi arrendo.
Esco dal bagno, infilo il cellulare nella borsa e mi metto le scarpe. Lancio un’occhiata alla sedia, tanto per assicurarmi che sia tutto pronto per andare a lavoro il giorno dopo; Eleonora mi ha suggerito di essere lì alle sei e mezza, in modo da poter aiutare Mureau a guarnire, sfornare e trasportare nell’orario di punta.
Da come mi ha spiegato, il momento più problematico è al mattino, perché la folla della colazione è concomitante a tutte le preparazioni giornaliere. Durante il pomeriggio Mureau si occupa principalmente di ordinazioni a portar via, mentre lei e Daniele gestiscono i clienti.
Quindi, a meno che non ci sia davvero molto lavoro, non dovrebbero avere bisogno di me.

***

Mia madre è sul divano insieme a mio padre, sono due grandi appassioni de “Il Segreto”, sono ormai anni che lo seguono puntualmente. Riesco quasi a comprendere mia madre, magari il melodramma della serie può essere piacevole per una donna della sua età, ma mio padre, rifletto mentre osservo lo schermo del televisore riflettersi sui suoi occhiali, perché mai mio padre dovrebbe appassionarsi a “Il Segreto”?
«Dove vai?» domanda mia madre senza guardarmi. Finge di ignorarmi mentre mi parla, è una delle sue tattiche più efficienti per snervarvi con il minor impegno possibile. È estremamente creativa in questo ambito.
«Esco» rispondo vaga.
«Perché non la smetti di dare il tormento a quel ragazzo?» mi chiede.
«Stefania» la rimprovera mio padre. Quando cerca di dividerci ha sempre lo stesso tono di voce fermo ma assecondante, come se volesse solo suggerirle di lasciarmi stare per non andarle contro. Non ho mai capito perché un uomo mite come lui abbia sposato una donna sempre sul piede di guerra come mia madre.
«Non ti riguarda, mamma» le ricordo prima di uscire. «Ciao, papà» lo saluto.
Alberto mi aspetta sotto il palazzo, dentro la sua macchina; siccome non mi vede, mi fermo a prendere tempo.
È bello, lo è sempre stato, probabilmente più di me.
Quando mi ha chiesto di uscire in terzo liceo ero la ragazza più invidiata del mondo: mi sembrava di essere come Cenerentola.
Lui era grande, attraente, popolare… io avevo le mèches bionde – sui capelli neri? Scelta stilistica discutibile – i brufoli, pochi fianchi e niente seno… e una cotta enorme, come tutte.
Gli ho risposto di no, credevo fosse uno scherzo, credevo volesse prendermi in giro.
Ha continuato a chiedermi di uscire per un mese intero, finché un giorno non ha fatto una piazzata a ricreazione, inginocchiandosi davanti a me e dichiarando che si sarebbe buttato dalla finestra se non gli avessi detto di sì.
Magico.
Sorrido ad occhi bassi: non so dargli le spiegazioni che cerca, non le ho.
Mi stringo le mani l’una nell’altra nervosa: sto per farmi vincere dalla vigliaccheria, tornare in casa e inventare una scusa, quando solleva lo sguardo e mi fissa.
Che tempismo di merda…
Raddrizzo le spalle e cammino fino alla sua macchina, salgo e chiudo lo sportello.
Tutto mi è famigliare in quest’auto: la consistenza dei sedili, l’odore del suo “Arbre Magique” preferito – all’acqua – il pupazzetto che tiene attaccato al cruscotto è un mio regalo.
La prima volta che abbiamo fatto l’amore è stato su questa macchina, aveva infilato Margherite in ogni bocchetta dell’aria per rendere tutto meno squallido.
Non so se amerò mai più qualcuno, quanto ho amato lui in quel momento.
«Ciao» mi saluta.
«Ciao» ricambio.
Rimaniamo tutti e due rigidi, una parte di me sente di doversi sporgere e abbracciarlo, abituata come sono a stare con lui.
Sono sempre e solo stata con lui.
Perché non voglio più starci? Che c’è di storto nella mia testa per voler mandare a monte una relazione affiatata con un ragazzo così adorabile?
«Vuoi andare da qualche parte?» mi domanda.
Mi immagino mille versioni di noi, silenziosi e in difficoltà, in mille posti diversi: terribile.
Sarebbe tutto molto più semplice se tornassimo insieme, direi che mi sono spaventata dai cambiamenti, che forse non ero del tutto pronta, ma…
«Non posso fare tardi» inizio. «Domani devo essere a lavoro alle sei.»
Ma a mia madre ho detto di “sì” in lacrime.
Si immette nella circolazione senza guardarmi, farà il giro del quartiere, come facevamo sempre quando non sapevamo dove andare ma non volevamo ancora rientrare: ci dava l’illusione di avere ancora molte cose da fare e molto tempo da passare insieme.
«Il colloquio è andato bene, quindi» deduce.
Sapere che osserva la mia vita mi infastidisce, ma avevo scritto che ero nervosa su Twitter e Tiziana mi aveva risposto con un “In bocca al lupo per il colloquio”: non era esattamente un’informazione top-secret.
Dovrei bloccare il suo account.
Dio, ma che razza di mostro ignobile sono?
«Sì, mi hanno presa» confermo, attenta a tenere a freno ogni desiderio di fare del male. Stare con lui mi innervosisce, lui mi fa sentire strana, irrequieta e pericolosa come un tigre in una gabbia minuscola: non posso muovermi, non posso ruggire, se mi giro le sbarre mi incasinano le strisce.
«Dove?»
Sono una stronza di livelli apocalittici che sta sviluppando un insano desiderio di animalier.
Resto zitta, agghiacciata, mentre mi vengono in mente immagini di sneakers, sciarpe, leggins e top tigrati. Non credo sia il look di cui ho bisogno, decisamente troppo aggressivo per me.
«Veronica» mi chiama per riprendersi la mia attenzione ballerina.
Ha ragione mia madre: sono una persona pessima, leggera ed egoista. Dovrei lasciar stare questo povero ragazzo.
«Perché hai voluto vedermi?» domando.
«Perché mi manchi» risponde semplicemente lui.
So che si aspetterebbe un “Anche tu”, so di poterglielo dire, come mille altre paroline che lo renderebbero felice.
Ma sarebbe una bugia.
Non mi manca.
Insomma i primi giorni sono stati duri, non sapevo più qual era il mio posto, non sapevo più cosa bisognava fare per vivere sola.
Poi però le cose hanno iniziato a muoversi.
Ho rincontrato Tiziana, l’avevo conosciuta un paio di mesi prima quando lavoravo al bar. Mi ha offerto un caffè e io le ho raccontato quello che stava succedendo.
Lei è stata dolce, gentile, divertente; mi ha definita “coraggiosa” e mi ha invitata ad uscire.
Ero sicura che lo dicesse per educazione, avevo milioni di messaggi di Serena, la mia migliore amica, che giurava di cercare del tempo da passare con me. Senza successo evidentemente.
Tiziana però la sera dopo mi ha chiamata davvero. Mi ha presentato Samuele e Luca, la sua amica Giulia.
Ho trovato un posto diverso, che non è meno bello di quando avevo un fidanzato.
Alberto sospira e scuote la testa. «Come hai fatto ha scordarti di me così in fretta?» domando fissandomi.
Vorrei spiegarglielo, vorrei raccontargli che mi sono divertita come una pazza il giorno prima con Tiziana e i suoi amici, ho riso fino alle quattro, mentre insieme a Sam dicevamo stupidaggini parcheggiati sotto casa mia.
Non mi è mancato, non avrei voluto essere di nuovo la sua fidanzata: se lo fossi stata, non sarei stata lì.
Le brave ragazze fidanzate non guardano ragazzi stimando le loro dimensioni intime o le capacità amatorie; non ammettono di essere curiose di sapere com’è fare l’amore con un altro ragazzo; non confessano di aver finto emozioni non provate, per non deludere le aspettative del proprio compagno.
Non si perdono a pensare da quanto tempo non sentono le farfalle nelle stomaco e quanto ne sentono la mancanza.
«Per me è difficile capirti» dice piano. «Vorrei sapere se ho sbagliato, vorrei capire dove, vorrei rimediare.»
Accosta in un parcheggio per concentrarsi sulla conversazione, io vorrei non essere mai salita su quest’auto.
Il problema sono io.
Vorrei urlargli di lasciarmi stare, dimenticarmi, scordarsi ogni bel momento passato insieme.
Perché non può capire che non è lui, ma sono io, riguarda me!
Come può rimediare alla mia voglia di starmene fino alle quattro di notte a sparare cavolate oscene su una macchina?
Che può fare per non farmi sentire affogare?
Come può accettare che io compri un paio di sneakers tigrate?
Non sono mai stata tipo da sneakers tigrate!
«È per quello che ho detto sul corso da pasticcera?»
«Alberto» cerco di interromperlo.
«Mi dispiace, so che tu lo facevi con tanta passione. Ma secondo me ti stavi ridimensionando in una carriera molto al di sotto delle tue possibilità» spiega. «Hai una laurea e facevi la barista, la gelataia… cavolo, potevi aspirare a qualcosa di molto più in alto.»
Il nostro grande piano vitalizio era molto semplice: finire l’università, trovare lavoro, affittare un appartamento.
Semplice.
Lui ha trovato un impiego in un ufficio di certificatori aziendali piuttosto in fretta, la sua remunerazione era abbastanza soddisfacente; quando sua sorella ha lasciato l’appartamento di proprietà della sua famiglia, accelerare leggermente il piano era sembrata una grande idea: io potevo concludere la mia università, mi mancava appena la tesi, lui poteva occuparsi delle spese da solo per i primi tempi.
Potrebbe vincere la medaglia come miglior fidanzato del mondo.
Era stato così straordinariamente comprensivo che, quando avevo iniziato a trovare difficoltà di impiego, mi ha incoraggiata a continuare a studiare. Con mio fratello fuori casa e autonomo, i miei sarebbero stati ben in grado di mantenere i miei studi.
Tutti credevano nelle mie possibilità e capacità, tutti mi hanno incoraggiata.
Con la domanda d’iscrizione per l’indirizzo di studi in Scienze Biologiche Magistrali in borsa, mi sono fermata a fare colazione in un bar; ho trovato un quotidiano e letto le stime sul tipo di mestieri più richiesti in Italia. Mancavano parrucchieri, pizzaioli, pasticceri e estetisti.
Ho finito il mio cappuccino e mi sono iscritta ad un corso di pasticceria.
Serve un resoconto su come ha reagito mia madre?
Non sapevo che quel corso e la concretezza di un impiego potessero cambiarmi tanto, ma l’hanno fatto e, per sfortuna di Alberto, mi piace.
Sospiro. «Non è per la pasticceria» inizio. Anche se ammetto che scoprire la sua opinione al riguardo non mi ha elettrizzata. Quando gli ho parlato delle mie intenzioni, mi ha consolata dicendomi che non dovevo farlo, che non dovevo preoccuparmi, presto avrei trovato un lavoro degno di me.
Non credo che sia stato questo a spingermi all’insofferenza estrema, ma sono sicura di aver ipotizzato un taglio da quella sera quando gli ho risposto: “Io voglio fare quel corso e spero di trovare una pasticceria disposta ad assumermi”.
«Allora, perché?» mi domanda esasperato interrompendo i miei pensieri. «Volevamo le stesse cose, volevamo stare insieme, costruirci tutta una vita insieme, volevamo sposarci, volevamo…»
Siamo stati insieme sette anni in mezzo, quasi un terzo della mia vita.
Scuoto la testa. «Perché io quelle cose non le voglio più.»
Lui resta senza parole.
«Forse un giorno le rivorrò, ma non ora, non così, non…» mi fermo, non ho il coraggio di dirlo.
«Me.»
Tanto semplice da farmi risultare banale.
Se avessi qualche problema psicologico, qualche conflitto interiore, qualche dubbio scatenato dall’inconscio sarei molto più interessante.
«Mi dispiace.»
Lui ride amaro. «A te dispiace?»
Mi riaccompagna a casa in silenzio, probabilmente questo è stato il nostro giro del quartiere più breve.
«Posso chiamarti?» mi chiede.
Mi sento in colpa, ma le sue attenzioni me lo rendono così odioso. Se avessi voluto averlo intorno a farmi domande e parlarmi, magari sarei rimasta con lui. «Non dovresti.»
«Perché?»
Mi stringo nelle spalle e lo guardo. «A mia madre ho detto che ero sicura» dico.
Lui non mi risponde.
Sto per scendere dall’auto, ma lui mi ferma.
«Quel colore di rossetto ti farà anche sentire una gran figa, ma non ti ci vedo proprio.»
So che vuole ferirmi perché sta male per colpa mia, quindi non rispondo.
Spero solo che questa sia davvero l’ultima volta che ci incontriamo.
Entro in casa, ignoro mia madre che mi aspetta alzata in cucina e mi accoglie con un “te l’avevo detto”.
La raggiungo e mi siedo accanto a lei: finge di leggere il giornale, come se potesse essere credibile che sia rimasta alzata solo per leggere l’ultimo gossip sulla fidanza di Raoul Bova.
«Ho accettato quel lavoro in pasticceria» le dico. «Inizio domani.»
«Va bene» risponde lei senza prestarmi troppa attenzione.
Mi alzo e faccio per avviarmi nella mia stanza.
«Veronica» mi chiama.
Mi fermo.
«Il colore di quel rossetto ti sta molto bene.»

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