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"Alcune persone
sono la prova che
'non uccidere',
sia un comandamento
tutto sommato discutibile."

Capitolo 3
Parte 1
Jace

12-20 Aprile 2018

Il calcio era la mia vita. Non ricordo un solo momento in cui non fosse stato presente. Mio padre mi iscrisse alla squadra dei pulcini della East Great quando avevo cinque anni. Pochi mesi dopo, si iscrisse anche il mio migliore amico, Jonathan Morgenstern. Da allora, non lo avevamo più lasciato. Ci piaceva scaricare le emozioni, le tensioni e lo stress in campo; rincorrere la palla e segnare ci provocava una scarica di adrenalina imparagonabile. Presto, divenne un'ancora per me. Avevo sette anni quando i miei si separarono e mia madre si trasferì in Alabama da un giorno all'altro, senza neanche salutarmi. Il ritrovarmi senza di lei mi fece diventare aggressivo e sfuggente. Per giorni, mi rifiutai di uscire di casa, me ne restavo davanti alla finestra a sperare in un suo ritorno e a desiderare che mi portasse via con lei, perché in quel periodo mio padre non era la miglior figura genitoriale esistente. Fu soltanto grazie a John ed Alec Lightwood, un altro mio caro amico, a cui ero legato come ad un fratello, che riuscii ad accettare ciò che era accaduto. Un giorno, si presentarono alla mia porta con un pallone da calcio in mano. Non vollero sentire ragioni, mi presero di peso e mi portarono nel campetto dietro la mia casa, obbligandomi a giocare: ero restio, ma, non appena Alec mi passò la palla, qualcosa scattò in me. La rabbia e il dolore furono trasferiti ai miei piedi e calciai con tutta la forza che avevo. Grazie al calcio, trovai il modo per superare l'accaduto e uno scopo da perseguire: affermarmi in quello sport. La squadra divenne la famiglia che non avevo più tra le mura domestiche e il coach Simmons, l'uomo che mi aveva insegnato tutte le tecniche di gioco che conoscevo, un secondo padre. Anche quando la situazione a casa si risolse, con l'arrivo - o per meglio dire il ritorno- nella vita di mio padre di Amatis, che, dopo un po' di ritrosie da parte mia, iniziò a ricoprire il ruolo di figura materna che la mia non aveva voluto, il calcio rimase ciò che più mi faceva sentire a mio agio, perché il pallone, il campo e la mia squadra erano le uniche cose che mai mi avrebbero abbandonato, qualunque cosa fosse successa. E con loro, soltanto Alec e John, che, nonostante i problemi a cui erano sottoposti, rimasero i punti fermi della mia vita.

La mia testardaggine, unita al talento naturale che sembravo possedere, fecero sì che fossi scelto durante il secondo anno di liceo, insieme a Jonathan, come vincitore di una borsa di studio per il calcio, che ci avrebbe portato per otto mesi in Sudafrica presso un liceo sportivo gemellato con il nostro per studiare e giocare nel loro Junior Team.

Erano stati mesi stupendi. John ed io eravamo stati collocati presso una famiglia del posto molto accogliente e gentile, che in poco tempo ci aveva fatto sentire a casa, ed i nostri compagni di squadra non erano per nulla arroganti come ci aspettavamo. Ma era solo un'esperienza transitoria e presto ci ritrovammo su un aereo, pronti a far ritorno a New York e alla nostra vecchia quotidianità.

Eravamo sempre stati abbastanza popolari a scuola e il nostro ritorno mobilitò la metà del corpo studentesco, che ci accolse con gioia non appena scendemmo dal pullman. In realtà, quella mattina era stata alquanto strana, per me. In teoria, né io né il mio migliore amico dovevamo recarci già a scuola, ma, un po' per la voglia di rivedere i nostri vecchi amici, un po' perché il jet leg si faceva sentire, alle sei del mattino eravamo già svegli e pronti per rientrare nella società studentesca della East Great. Eppure qualcosa doveva pur andare storto e la batteria della mia auto, rimasta ferma per otto mesi, aveva deciso di abbandonarmi. Così, ero stato costretto a prendere lo scuolabus che passava per il nostro quartiere, dopo averlo rincorso per una quindicina di metri. Appena salito, mi ero precipitato verso i posti in fondo, dove mi aspettavano i miei amici, ma una nuvola rossa aveva intralciato i miei piani ed eravamo finiti entrambi a terra. Non sapevo chi fosse, o meglio, pensavo di averla già vista da qualche parte, ma non avevo idea di dove. Pensai fosse una delle mie ex e le mostrai il mio miglior sorriso. Grave errore, perché il suo sguardo sembrava volermi fucilare seduta stante. Per carità, non era la prima volta che qualcuna mi trattava male, ero un bel ragazzo e abbastanza popolare, ma la vita liceale non era come la descrivevano le serie tv o quelle stupide commedie americane che la mia cara matrigna sembrava adorare: nessuna ragazza era pronta a cadere ai piedi del primo bellimbusto che le si presentava davanti con un bel sorriso. Perciò, sì, avevo ricevuto dei rifiuti e anche un paio di schiaffi, ma tutti per una valida ragione, mentre la sua espressione così disgustata era ingiustificata, a meno che non la conoscessi già.

My Loving Clash |IN PAUSADove le storie prendono vita. Scoprilo ora