Prologo

874 60 6
                                    

Avevo sempre desiderato tenere con me un animale domestico.

Mi sarebbe bastato anche un criceto o un pesce rosso ma, dopo anni di suppliche, i miei genitori decisero finalmente di portarmi al canile della città per scegliere un cane da portare a casa.

Era il 20 agosto 2059, il giorno del mio undicesimo compleanno.

Il canile comunale era una grande struttura in mattoni, nascosta nel verde di una natura quasi incontaminata. Sorgeva ad una decina di chilometri dalla città e la strada che costeggiava il caseggiato era raramente percorsa da macchine che, nel novanta percento dei casi, erano quelle dei visitatori del canile.

In quella giornata estiva, il colore rosso dei mattoni che componevano l'edificio non faceva altro che aumentare la sensazione di caldo che mi attanagliava.

Mentre mio padre parcheggiava la macchina di fronte al canile io avevo già messo la mano sulla maniglia della portiera. Quando l'auto si fermò con un sobbalzo, scattai fuori più veloce di un leopardo.

L'aria, in quel punto, mi parve così pulita che per un attimo pensai di star sognando; in città era rarefatta da decenni e spesso non si poteva uscire per giorni senza indossare delle maschere protettive.

Mi accorsi della presenza dei miei genitori al mio fianco solo quando sentii la mano di mia madre che mi si posava sulla schiena, tra le scapole, e mi incitava a muovermi verso la porta di ingresso.

All'interno della struttura ci attendeva un uomo sulla cinquantina, con i capelli che cominciavano ad ingrigirsi tirati indietro con del gel. Lo fissai e, quando il suo sguardo incontrò il mio, decisi che quell'uomo ispirava fiducia.

Aveva le pupille così scure da sembrare quasi nere, ma ai miei occhi ciò non servì ad intaccare l'immagine che mi ero costruita dopo il primo sguardo.

«Buongiorno!» Esclamò l'uomo dipingendosi in volto un sorriso. «Voi dovete essere la famiglia... Madden, giusto?» Chiese dopo aver controllato una cartella che aveva tenuto, fino a quel momento, nascosta dietro la schiena.

Mia madre annuì, ma fu mio padre a rispondere all'uomo con un "sì" netto, pieno di quella cortesia che si usa per rivolgersi agli estranei.

L'uomo cominciò a blaterare dei vari controlli che ci sarebbero stati nella nostra casa, poiché aveva il compito di decidere se la nostra abitazione sarebbe stata abbastanza accogliente per un animale. Ad un certo punto doveva anche esserci presentato, ma la mia mente era già lontana chilometri quando era successo.

I miei genitori continuavano ad annuire come due scolaretti, interrompendo l'uomo di tanto in tanto con sporadiche domande, a volte così stupide che perfino io avrei potuto dargli una risposta.

Dopo quell'introduzione che parve durare ore intere, l'uomo ci rivolse finalmente l'ennesimo sorriso, incitandoci a seguirlo all'interno dell'area riservata ai cani.

«Vedete, normalmente gli animali vengono tenuti all'esterno, in quei box che credo abbiate notato una volta attraversato il cancello di entrata.» Io non li avevo notati, ma mi cucii la bocca e mi comportai, per la prima volta forse, da bambina modello. «In estate e con il caldo afoso di queste zone, tenere i cani nei box all'aperto sarebbe una vera tortura per loro. Dunque li spostiamo all'interno, dove abbiamo recinti altrettanto ampi ed un ambiente decisamente più fresco.»

L'uomo riesumò un paio di chiavi dalla tasca e le inserì nella serratura della porta che ci si era parata davanti. Un click soltanto e la porta si spalancò, rivelando una sala ai miei occhi infinita e costeggiata da file di box.

Il primo cane rizzò le orecchie immediatamente, saltando in piedi e cominciando a scodinzolare vicino alla rete, seguito a ruota dagli altri.

La prima cosa che sentii fu il dolore; un dolore sordo che non mi apparteneva. Poi ci fu la speranza, una di quelle così forti da lacerare l'animo. E poi la gioia, la tristezza, la paura.

Un mare di emozioni mi si riversò addosso, mi sommerse come fa l'acqua con un uomo che affoga. Mi mancò il fiato e per un attimo pensai di morire.

Mi inginocchiai a terra, stringendo la testa fra le mani. Un urlo sovrumano sbocciò dalle mie labbra, riempiendo ogni angolo della stanza. Quell'urlo agghiacciante fu benzina su un fuoco; i cani presero ad abbaiare ancora più forte.

«C'è... così... tanto dolore.» Sputai fuori quelle parole, o almeno credevo di averlo fatto. Gli adulti che però si apprestavano a soccorrermi non parvero udirle.

Chiusi gli occhi e pregai soltanto che quelle emozioni così potenti scemassero, che tornassi a provare nient'altro che la gioia di pochi minuti prima, ma le emozioni non scomparvero finché mio padre non mi sollevò dal pavimento e mi portò in macchina.

Cominciarono ad affievolirsi. Sempre di più, e di più, fino a scomparire del tutto.

Quando le portiere della macchina si richiusero intorno a me e io guardai la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore, i miei occhi erano iniettati di sangue e le mie unghie avevano scavato dei solchi nella pelle delle guance.


I sussurri della Terra Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora