Capitolo.1 Carol, la ragazza pallida

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-"Fantasmi e zucche'': Voleva vivere così! anzi no, lei era così! Temeva troppo gli incubi così sognava ad occhi aperti, amava la luce ma avrebbe scelto sempre la pioggia, viveva per far sorridere gli altri ma avrebbe narrato sempre il dolore. Era per l'equilibrio e di fatto lo lasciava agli altri. Lei avrebbe desiderato uscire con grossi anfibi, uno zaino moscio a farle da contapassi battendo fastidiosamente su quella lunga schiena dolorante di pensieri , incamminandosi chissà dove e con chi, col batticuore e al calar del sole. In cerca di guai, in cerca di una porta magica e nascosta, di un bosco parlante, di un'avventura fantastica . Lo aveva scritto in faccia, che era qui solo per portare un pizzico di sogno alla natura addormentata....

-Questo libro è davvero forte!- penso trattenendo il respiro, sorpresa da quel ritratto di me perfetto.
Poco dopo scendo al piano di sotto per il pranzo, sentendomi chiamare insistentemente.

CAPITOLO I.

Come sempre a quest'ora, mi ritrovo seduta a tavola con la mia famiglia.
Occhi bassi sul piatto mangiato per forza, occhi bassi per non incrociarne nessun altro, per non rischiare di lasciarmi innervosire dai soliti discorsi vuoti e per non denunciare l'incapacità di ascolto e la cecità profonda di genitori a cui non posso rimproverare nulla, se non di trovarmi qui adesso.
La cosa più brutta è senz'altro quella di percepire la loro preoccupazione, le loro reticenze negli approcci... e la mia incapacità di ammorbidirmi anche solo un po'.
Sono una bomba ad orologeria, sento dentro un perenne rancore che logora gli organi, e in realtà quel rancore non è altro che  il non detto, ciò che si sa ma resta taciuto. Con ancora in bocca l'ultimo boccone mi alzo, stiracchiandomi e dirigendomi come programmata verso la mia stanzetta, che chiudo a chiave dietro di me. E spuntando il boccone (divenuto ormai un blocco informe) nel cestino, mi domando come avessero potuto commettere un'atrocità simile: mettere al mondo qualcuno senza chiedergli il permesso. Gettare un pesce tra squali, un neonato tra piranha, abbandonare un cane in autostrada. Ecco come mi sentivo io al mondo.
Si sono già fatte già le 15, ed io devo correre a lezione, anche se odio i rientri. Qualsiasi cosa è comunque meglio di rimanere in casa, mormora una vocina dentro la mia testa. Così, lavati i denti e fatta una mezza coda alla meno peggio, prendo il mio vecchio zaino vuoto ed usco dal garage... chiudendolo con fatica.
L'idea di guidare mi dava la nausea e abbandonatami alle mie stesse paure ho deciso di comprare una bicicletta, in modo da girare nella piccola cittadina dove mi sono trasferita, senza problemi. 
Raggiungo la scuola ogni giorno in 17 minuti esatti, cronometrati alla perfezione con tre tracce differenti degli Arctic Monkeys.
Decisamente in anticipo rispetto al corso di inglese che mi aspettava quel venerdì, rimango ferma sotto dei grossi portici grigi e logori a fumare una sigaretta, mentre ancora il gruppo recita: "Why'd you only call me when you're high?"
Lì stesso o poco più avanti riconosco,  seppur ancora sbiadite, le sagome di diversi ragazzi che ho conosciuto in questi sei mesi trascorsi a Londra. Mi limito a salutarli con un cenno impacciato e mi siedo sul muretto per finire la mia sigaretta. È proprio durante l'ultimo tiro che mi assalgono i sensi di colpa: devo smetterla. O i miei attacchi di panico non faranno che peggiorare. Ho cominciato a soffrirne dopo la morte di mio fratello, che aveva solo sei anni. Ecco il perché del nostro trasferimento.
Al corso di inglese non partecipava esclusivamente una classe, e proprio lì ho avuto modo di incontrare due ragazze nuove: Alice e Gea. Vederle arrivare mi fa tirare un sospiro di sollievo, e mi fa anche sorridere. Il legame instauratosi con loro nel giro di due settimane era davvero straordinario rispetto a quello creato con qualsiasi altro componente della mia classe, che era fallito miseramente. Per loro ero solo "quella nuova."
Con Alice e Gea c'è un ragazzo arrivato da pochi giorni da New York. Non so altro di lui, non ci siamo neanche presentati, se non sbaglio. Cammina a capo chino e sorride di sbieco. Mi saluta senza presentarsi, come se ci conoscessimo da sempre.
È

veramente carino, soprattutto da vicino. Il biondo rame dei capelli mossi incornicia un bellissimo ed ampio sorriso. Quello di chi è molto amato, o ha molto sofferto.
Sento Gea chiamarlo sottovoce, ma non riesco però ad afferrarne il nome.
-Caaaarool! Gridano all'unisono.
Vado loro incontro e ci stringiamo in un abbraccio. Il ragazzo indietreggia e sorride, sembra simpatico. Come lo sono sia Alice che Gea, del resto. Intuisco immediatamente che tra loro c'è un'amicizia solida, si conosco sicuramente da molto tempo. Insieme  sono molto chiassosi, ma al contempo grandi ascoltatori. Noto immediatamente la volontà del... "ragazzo" di inserirmi nel discorso, e ho quasi paura che possa pensare che ho bisogno di aiuto. Mi irrigidisco. A giudicare dalla mia capacità di far notare il fastidio, direi che lo ha capito subito. Non mi parla più, ha anche smesso di guardarmi.
Continuo a parlare nervosamente con Alice.
Pochi minuti dopo si mette a piovere, e decidiamo di entrare in classe.
La pioggia non mi dà alcun fastidio, anzi, mi fa sentire libera. Mi indirizzo all'ingresso con la solita flemma, come di chi nutre una larva da decenni. Smorta, viva tra morti, morta tra vivi, a seconda del punto di vista. Con troppi interrogativi ad assillarmi e troppo dolore pregresso ad impedirmi di ricominciare. Il pensiero di ritornare a casa tra due ore mi fa venire il voltastomaco. Entro in classe pallida come ero solo nei periodi in cui un'ossessione mi divorava la mente, per esempio: essere ascoltata dal diavolo o gettarmi giù dal quinto piano durante il sonno. Non riesco più  a riconoscermi, non sono felice del fatto che nessuno mi riconosca.
Così, sudata e con le extrasistole non mi accorgo che sono già entrata in classe e che Alicea e Gea mi avevano coperta sotto il loro giubbotto.
Inizia la lezione d'inglese.
Io non vedo già l'ora che finisca, la lezione, il pomeriggio, la serata, tutto.
Mi chiedo quando finirà tutto quel dolore. È come se mi vedessi in terza persona, nessuno può aiutarmi: sono la spettatrice che guarda un mediocre stupido masochista spettacolo mentre chi lo recita, accecato dalla luce dei riflettori, non vede la platea.
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Nauseata chiedo di andare in bagno.

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