Capitolo 1

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Uomo, la mosca ha un volo più veloce del tuo occhio, e una vita più breve del tuo dolore (anonimo greco)

«Io a scuola non ci vado più. Fine della discussione.» urlai in faccia a mia madre.

«Naiche! Dove pensi di andare senza un diploma?»

«Tu non capisci mamma. Non sai cosa significa stare in quell'ambiente sterile per trenta ore a settimana. Ho il cervello atrofizzato. »

«Ambiente sterile? Ma se hai voluto cambiare scuola apposta perché quella è la più innovativa del mondo. Sai il sacrificio che mi costa spedirti lontano da casa?»

«E' tutta apparenza senza sostanza. Solo perché utilizzi degli strumenti tecnologici non significa che hai portato l'innovazione a scuola. Non è un tablet o una lavagna interattiva che fanno un insegnante. Mancano gli stimoli, la motivazione, l'amore nell'insegnare.»

«C'è gente che pregherebbe per essere al tuo posto e tu sei solo capace di lamentarti.»

«Papà mi avrebbe capito.» dissi sbattendo la porta della cucina. Corsi nella mia camera e mi chiusi dentro a chiave. Con quell'ultima frase l'avevo fatta sentire in colpa ed era ciò che volevo. Avrebbe rimuginato quelle stesse parole per un giorno intero, si sarebbero insidiate nel suo inconscio e anche nei sogni, non se ne sarebbe più liberata. L'avevo resa prigioniera di quella sentenza, schiava della sua stessa mente. Utilizzavo questa tattica quando volevo ottenere qualcosa e aveva sempre funzionato. Per difendere le mie idee sarei stata disposta ad annientare psicologicamente una persona.

La morte di papà lei non la aveva ancora elaborata, non accettava il fatto di essere rimasta sola con due figli turbolenti come me e mio fratello. E come potevo darle torto? Non avrei mai voluto essere al suo posto. Nonostante fossi ben consapevole di questo, non le perdonavo niente. Anche un errore banale glielo facevo passare per una fatalità. La rendevo colpevole per la morte di papà. Un giorno arrivai addirittura a dirle perché non era stata sepolta lei al posto suo. Mi rispecchiavo molto nel ruolo della persona sadica e non nascondo che mi piaceva proprio.Io ne parlavo raramente con gli altri di papà e detestavo quando mia madre rendeva pubblica la sua sofferenza. Ne parlava con le colleghe, con le sue sorelle, con i miei insegnanti. Aveva perfino una sua foto sulla scrivano del suo ufficio. Il dolore è ancora più dolore se tace. Non volevo essere compatita da nessuno, non avevo bisogno della pietà di quelle persone, del loro sguardo compassionevole. Ho sempre preferito essere invidiata piuttosto che compatita. Ne avevo avuto abbastanza della falsità che si celava dietro alle loro parole di cordoglio. Non era mai fregata ad anima viva la salute di papà e ora che stava comodamente sdraiato tre metri sotto terra sembravano tutti terribilmente afflitti.

«Hey Naiche! In filosofia quest'anno abbiamo un supplente. Mi dispiace tantissimo che non ci sia più Chris: era così affascinante.» Ero a scuola da cinque minuti e Giulia mi aveva già trovata. Più cercavo di starle lontano, più lei mi si appiccicava come una sanguisuga. Giulia aveva la mia età e frequentava la mia stessa classe. Aveva un debole per gli uomini in giacca e cravatta. Si vendeva bene: era dotata di una buona favella che immancabilmente finiva con l'incantare tutti i professori. Inutile dire che i suoi voti erano magicamente tra i più alti della classe.  Le era concesso tutto, anche farsi il professore di economia. Era una tipa che scopriva gli altarini per puro pettegolezzo. Prima rientrava nel gruppo delle «super girls» della classe ma, da quando si sono accorte che raccontava troppe frottole, l'hanno lasciata su due piedi. Quindi iniziò a raccontare tutti i suoi problemi esistenziali a me. La nostra "amicizia" si basava su una comunicazione unidirezionale: lei mi parlava delle cose più futili di questa terra e io dovevo solo stare zitta e sorbirmi le stronzate che mi diceva. Stavo al suo gioco perché era una persona così sola che mi faceva pena. Mi considerava una rivale, facendo finta di essere un'amicona. Non ho mai capito perché fosse così tanto invidiosa nei miei confronti, non avevo assolutamente niente da invidiare: non vestivo firmata, non avevo il cellulare dell'ultimo modello, non curavo il mio aspetto esteriore, a scuola non mi impegnavo, non ero membro di una famiglia felice e spensierata, non avevo amiche femmine, non mi piaceva fare shopping, non avevo mai la mia stanza in ordine, non seguivo il bon ton, non stavo mai alle regole, non sapevo cosa fosse la femminilità, non avevo un ragazzo fisso, non m'intendevo di cosmetici o smalti, non riuscivo ad indossare orecchini, collane o braccialetti, non avevo gli occhi azzurri, non facevo palestra, e nonostante tutto ciò rientravo nella sua categoria di "persone da invidiare". Non le ho mai detto apertamente ciò che davvero pensavo di lei: aveva l'arsenico in corpo e non avrei saputo come difendermi dalla sua cattiveria. Ma nonostante ciò, ero sicurissima che prima o poi l'avrei presa da parte e le avrei restituito tutto il male che aveva procurato a me e a molta altra gente. Stavo solo temporeggiando.

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