Koldan - VIII

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Subito, il panico cadde tra di noi. Sentire quei passi pesanti...i tonfi, così in fretta, ci fece sobbalzare impauriti. Khan mi guardò per un lungo secondo, poi mi trascinò via dietro uno dei tanti mobiletti che adornavano la stanza. Una stanza, con la corretta illuminazione, gentile e accogliente, dove per passare ed uscire bisognava districarsi attraverso piccoli cunicoli ricavati proprio tramite il posizionamento dei mobiletti. Khan diede un lungo sbuffo e spiò al di sopra del mobile dietro il quale speravamo di nasconderci. Scese proprio ciò che non volevo vedere: un uomo grosso, sarà stato alto un metro e ottantacinque, un berretto rosso sulla testa e gli occhi scuri, forse si era appena svegliato. Girò i suoi occhi intorno la stanza e sbuffò leggermente, scendendo con sicurezza anche nel buio cupo della stanza gli ultimi scalini. Khan mi diede un lungo sguardo e poi mi spinse, indicandomi silenziosamente l'uscita. Io, non sapendo cosa fare, mi diressi a carponi verso la salvezza, il sudore che mi colava negli occhi. Era tutto così confuso, nella mia testa. Che volevano fare con me? Sarei mai riuscito ad arrivare da mio padre? E soprattutto, come avevano intenzione di farmici arrivare? Di sicuro esistevano cunicoli per arrivare anche sopra la fortezza, ma come potevo immischiarmi tra tutta quella alta borghesia con quel genere di vestiti? Solo a pensarci mi viene da ridere: Koldan il calzolaio reale o...Koldan il fattore. Ridicolo ma necessario se volevo avere la mia vendetta. Tutto stava andando così veloce, tante persone avevo incontrato e alla fine quasi mi stavo dimenticando per quale motivo ero lì. Per Katrina ed era l'unica cosa che contava...O almeno credevo. Volevo crederci...non sapevo neanche se l'avessi mai amata, era tutto così confuso. Cercavo la vendetta per lei o cercavo qualcosa per vivere? Qualcosa per andare avanti, per guadagnare onore, riconoscenza o chissà cosa...soldi...
Stavo davvero cercando di vendicare Katrina? Era un pensiero così opprimente, così difficile da avere nella testa, che era diventata così pesante...come un meccanismo bloccato. Si era bloccato su lei, su Katrina, e su Joseline...
Dovevo andare, dovevamo andare.
Bisognava pensare in fretta, un'occhiata e via, verso la porta, giù nel cunicolo diretto dove almeno ci si sentiva relativamente al sicuro. E così feci, guardai verso la porta, tesi i muscoli delle gambe e strisciai dietro le varie teche, facendo di tutto per non tirare un sospiro mentre cercavo di evitare gli spiragli di luce fioca che filtravano attraverso i vetri multicolori del locale.
L'uomo non sembrava essere molto cosciente di quello che stava facendo in quel momento, rivelando il fatto che, alla fine, si era davvero svegliato in quel momento. Si portò una mano grossa dalle dita tutte affusolate e grasse fino al naso, tirando sopra quegli occhialini troppo piccoli per stare su un volto del genere. Prese un passo nella sala e guardò attorno, emettendo un solido soffio appena sentì la fresca aria del deserto notturno attraversare la stanza. In quel momento, avendo la porta a giusto qualche metro di distanza, stavo pregando tutti le divinità che potessi ricordare di non farlo accorgere della nostra presenza, o della mancanza dei gioielli nelle teche. Ben presto, mi resi conto di un altro problema: non potevamo aprire la porta e rischiare poi di essere visti dall'uomo.
Con la mente in subbuglio, poggiai la refurtiva sul pavimento, gli occhi che cercavano disperatamente quelli di Khan. I suoi erano freddi come l'acciaio, fissi su quelli dell'uomo, che malauguratamente, lentamente, si abbassarono sulla teca accanto alla sua massiccia presenza. Subito, il suo volto si tramutò dal bianco pallido al livido rosso, poi al carminio più acceso per finire al potente rosso sangue, di rabbia pura. Qualcuno aveva osato rubare a lui?!
Sussultai silenziosamente quando l'uomo colpì il vetro della teca con un pugno, fratturando lo spesso vetro del mobile, i suoi occhietti piccoli dentro i rotondi degli occhiali che scattavano a destra e a sinistra, cercando un'ombra sospetta. Khan sembrava più allarmato del solito, la mano a terra pronto a lanciarsi in una fuga verso il luogo più lontano dove le sue gambe gli avrebbero permesso di arrivare, mentre mi tenevo sulle ginocchia, in attesa di qualcosa di non meglio specificabile. Tipo l'aiuto di qualche dio?
L'uomo, carico di rabbia, prese lunghi passi verso il buio e, notando lo spiraglio tra la porta e lo stipite, abbassò malauguratamente gli occhi. Notò due piccole figure ranicchiate, una molto più sveglia dell'altra.
Khan scattò svelto vicino le gambe del gioielliere, il sacco tra le mani, mentre l'uomo cercò invano di afferrarlo. Prese una svolta rapida a sinistra, scivolò sopra il mobile e atterrò al sicuro davanti la porta di uscita, spalancandola aperta e correndo verso la salvezza.
Adesso era un affare tra me e lui.
L'uomo si girò con quegli occhi suini diretti verso di me, le mani strette in grossi pugni. Mi afferrò per la maglia e strattonò violentemente, i bordi del cono ottico diventare bianchi per il dolore appena mi scaraventò contro il mobile più vicino, che crollò sul gentile parquet presente nella stanza, risuonando ampiamente. Mi portai una mano sul volto e soffiai tutta l'aria del corpo, calciata fuori dal poderoso colpo assestato con il collo del piede dritto sullo stomaco, un rantolo flebile proveniente dai polmoni. Rassegnato, scossi la testa e pensai a quanto sciocco fossi stato ad accettare quel lavoro, per convincermi di essere una brava persona e per aiutare me stesso nel credere di avere un posto nella grande visione della vita. E adesso, ridotto ad uno straccio per pavimenti, arrancavo sul parquet in cerca di aria.
L'uomo mi prese per il colletto e mi mise bene bene contro il mobiletto, preparò un altro calcio e questa volta incontrò solo il duro legno del mobile, visto che fui abbastanza svelto da scamparlo. Al suo urlo di dolore si accompagnò il mio soffio di disperazione, rimanendo accasciato a terra con un oggetto dalle parecchie punte conficcato nella pelle. Faceva così male che per poco non finii per svenire, ma, raccogliendo le ultime forze, presi il sacco e, a gattoni, cercai di raggiungere la porta, lo zigomo sanguinante e liquido appiccicoso lì dove l'oggetto aveva bucato maglia e pelle. L'uomo non si era ancora dato per vinto. Come ultimo gesto di spregio, spinse una delle teche contro la mia già arrancante figura, mancandomi per un gentil soffio. Raggiunsi la porta spalancata e arrancai fuori, tenendo stretto il sacco con una mano e lo stomaco grondante con l'altra, autoconvincendomi che adesso la fuga sarebbe diventata tutta una strada in discesa. Intanto, da dentro, il porco chiamava le guardie con una vocina stridula, probabilmente massaggiandosi quei piccoli ditini da animale che si ritrovava sui piedi.
Con la vista annebbiata, arrivai fino dove si apriva l'entrata al mondo sotterraneo, gli occhi pieni di lacrime dal dolore e dalla prigionia a vita scampata, il liquido appiccicoso che ormai arrivava fino sotto all'addome.
Non riuscii ad entrare nella caverna che mi sembrò di diventare più leggero. Ma non stavo volando, stavo cadendo. Persi i sensi lì, nella sabbia, gli occhi a guardare la nuda roccia della galleria, la mano sul petto e il sacco accanto al mio corpo esamine, in attesa per la chiamata dal dio della morte.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 09, 2017 ⏰

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