Al risveglio, la sera stessa, aprii gli occhi e guardai attorno, senza forzare nessun movimento brusco o cose del genere, dato che sentivo la sua soffice mano sul mio petto, i suoi polpastrelli delicati poggiati su di me e la sua guancia sul mio stomaco, si doveva essere addormentata poco dopo me. Dormiva così pacificamente, le sue candide guance così perfette che sembravano perlate, una vera perla in quel luogo di perdizione, così dimenticato dalla luce. I suoi capelli biondastri erano legati in un delicato intreccio tenuto insieme da un mollettone di legno e ferro finemente intagliato e colorato di rosso ed erano abbandonati sulla mia pelle nuda e fresca. La luce blu le faceva risplendere le labbra e i lineamenti soffici come se fossero stati dipinti da un pittore o nuvole scolpite da un dio sul suo volto. Le poggiai gentilmente la mano sulla sua e lei sussultò appena, le sue dita si strinsero in un piccolo pugno e ciò mi fece sorridere così tanto che scossi la testa. Emise un piccolo suono con le labbra, come un leggero lamento, le sue sopracciglia si arruffarono e ritornarono normali, graziandomi con un leggero sorriso, il sorriso di una diavola e di una dea. Mi sciolsi, mi sedetti e presi la sua testa tra le mani, la poggiai sulla mia spalla e la alzai dai fianchi, poggiando poi una mano sotto la sua coscia per tenerla su, usando poi anche l'altra. Tenni il suo soffice corpo contro il mio per un secondo e lei subito avvinghiò quelle braccia latte attorno al mio collo, sorridendo e strusciando il suo volto sul mio collo. Era tutto così dolce e smielato che mi ero quasi dimenticato di dove ero. Poggiai il suo corpicino sul letto e lo coprii amorevolmente con una coperta. Lei si accoccolò immediatamente e emise di nuovo quel piccolo lamento, come se si fosse accorta del cambiamento di calore. Si girò su se stessa, portando la coperta con lei e rigirandosi dentro di essa, la sua mano a tirare la coperta sopra fino al naso. Mi avvicinai giusto quel poco per lasciarle un piccolo bacino sulla guancia. Lei arricciò il naso e cacciò fuori un piccolo sorriso, accennando un: "Mamma, ho sonno..."
Trattenni una risatina nella mia gola e scossi di nuovo la testa, guardando via da lei che mi avrebbe sicuramente tenuto lì se l'avessi continuata a guardare. Presi i miei pantaloni e la maglia e il resto, mettendoli tutti addosso e camminando poi verso la porta. Ma come le api ritornano sempre verso il loro fiore preferito, mi rigirai di nuovo e le rivolsi un sorriso magico, pieno di affetto per un essere così delicato e dolce. Scansai la tenda con una mano e sbadigliai, sbattendo contro una signora grossa, dagli avambracci potenti e bronzati. "Mi scusi..." Le sussurrai, guardandola poi in volto. Aveva dei lineamenti gentili nonostante la sua stazza. Mi sorrise gentilmente e chinò la testa, come per rincuorarmi che nulla era successo.
"Mia figlia è dentro?" Mi chiese, alzando la mano e indicando la tenda scura, le strisce che a malapena coprivano l'interno della stanza.
Io le sorrisi gentilmente e guardai verso la tenda, scostandola leggermente. "Si, dorme ora." Le sussurrai, dandole una rapida occhiata prima di rivolgere lo sguardo altrove. Si vedeva appena il suo volto profilare da sotto le coperte e la sua soffice mano sopra il lenzuolo.
La donna doveva essersi accorta di come la guardavo: come una lupa e la sua cucciolata; dolcemente, gli occhi brillanti. "Sai, mia figlia non incontra mai nessuno della sua età qui sotto." Mi sorrise docilmente, un sorriso che stava bene con il suo volto ma che stonava come un graffio su una statua di marmo nei confronti del suo corpo grosso. "E, a dirla franca, non sembri qualcuno che qui ci vorrebbe vivere." Mi sussurrò, la sua mano toccandomi la spalla.
Guardai casualmente dentro la stanza, di nuovo, i miei occhi roteando a guardare la madre. "Non ho intenzione di rimanere qui per molto." Le risposi, la mia voce bassa, una nota dolente si poteva sentire chiaramente.
"Sei sicuro? Intendo..." La madre sorrise debolmente e scosse la testa, guardando poi verso la sua figlioletta. "...Nulla. Puoi...portarla con te se vuoi." Lei si fidava di me, ciecamente. Ero pur sempre un ragazzo dal volto gentile, diverso da tutti quegli uomini violenti e nerboruti che abitavano quei luoghi dimenticati. "Lei è troppo preziosa per questo posto, quando te ne andrai, portala con te." Sussurrò, prendendomi la spalla. Non potei far altro che guardarla e sorridere, prima di annuire.
"Io ci proverò, ma lei vorrà venire?" Chiesi, magari un po' scioccamente, i miei occhi girando in tondo prima di fermarsi addosso alla ragazza, di nuovo.
"Ma certo, è cotta." Mi rispose, stringendomi gentilmente la spalla con quella sua mano contadina.
Cotta, cotta...che parola così calda, così potente. Mi entrò nel cuore e mi fece allargare gli occhi. Cotta, e che significava? Avevo qualche possibilità? Gli dèi avevano sorriso e mandato su di me un nuovo protettore, dopo Katrina, o era soltanto una stupida illusione? Proprio quando credevo di non poter mai più dimenticare il volto di Katrina, ecco che a quel volto si sovrappone il suo, angelico, sceso dal cielo, e Katrina diventa sempre più fioca e Joseline brillante come il sole e la sabbia che corrode.
Le rivolsi uno sguardo tra lo stupido e lo stupito e le annuii gentilmente, prima di sorridere, il mio cervello tagliato via dal corpo, che rispondeva come il cuore e l'istinto gli dicevano.
"Cotta, eh? Se lei così dice..." Le risposi in fretta, dato che quello cotto lì ero proprio io, i miei occhi che inevitabilmente cadevano sotto le scarpe della donna.
Le parole arrivarono strascicate alle orecchie dell'insolita fanciulla e lei mi sorrise bonariamente, le sue parole che uscirono come una cantilena dalla sua bocca così forte e quasi virile ma che comunque lasciava uno spazio all'amore della madre: "È rimasta tutta la notte con te, io non so come questo si chiama perché ho perso l'occasione di essere giovane." Iniziò, con tono quasi solenne, i suoi occhi che navigarono a guardare la sua, di fanciulla: "Ma per lei...mi sembra codardo non lasciarle vivere la sua vita. È troppo dolce, è troppo innocente per vivere in questo schifo. Insomma, guardati intorno..." La sua voce era ora ridotta ad un sussurro: "Guardati bene attorno. Non credo è il posto adatto per lei, per nessun altro. È un brutto posto." Continuò, le sue mani che toccavano le sue stesse guance.
Effettivamente, mi guardai attorno, e la donna che ripeteva quanto brutto fosse quel posto mi aprì gli occhi e mi fece vedere. L'umidità si stava mangiando le tavole e le travi del legno, quasi marce, l'acqua in certe parti filtrava sotto le tavole del pavimento e la stessa acqua ora quasi cominciava a puzzare. Presi un leggero respiro e la guardai di nuovo: "Lei sa perché sono qui?" Le domandai, la mia voce che si incrinò leggermente sull'ultima parola. In fondo, non lo sapevo neanche io perché ero laggiù. Per una triste coincidenza o qualcuno stava tessendo fili molto lunghi e molto sottili?
La donna scosse le spalle e mi guardò sopra, ai capelli. Incerta, allungò una mano e quasi li sfiorò, prima di guardare sotto ai miei occhi: "Noi, qua sotto, abbiamo occhi e orecchie dappertutto. E quando dico dappertutto..." Aprì le mani e fece fare un ampio cerchio con esse: "Intendo realmente dappertutto. Ma devi sapere che anche lassù hanno occhi e orecchie, ed evidentemente i loro occhi hanno visto questi capelli e, volendo evitare a sua maestà una pubblica vergogna..." Alzò entrambe le spalle e strinse le braccia sotto ai prominenti seni.
"Sta forse dicendo che quei bambini erano spie?" Le chiesi, forse un po' stupido nella mia domanda. Che ne poteva sapere, lei?
"Erano bambini?" Mi chiese, poi continuò appena le annuii: "Molto probabilmente erano piccole spie."
Piccole spie? Erano dei bambini fragili e indubbiamente piccoli, ma devono aver avuto meno di sette anni, forse otto, ciascuno. "Come, piccole spie? Erano molto, molto giovani." Le dissi, strabuzzando leggermente gli occhi.
"Ho sentito storie che raccontano di avvelenamenti di castelli interi per mano di bimbi. Piccoli e graziosi fino a quando non buttano un topo morto nell'acqua, poi non ci si scherza più su queste cose." Mi disse, la sua voce ancora più dolce e bonaria. Mi posò una mano sulla guancia e scosse la testa, tirando un grosso sospiro: "Ah, piccolo mio. Quante cose devi ancora imparare..." Mi disse, cosa che mi fece sorridere quasi di istinto, il suo pollice che delicatamente saggiava la pelle sullo zigomo. Mi guardò per un lungo secondo, poi sospirò di nuovo: "Johannah mi ha detto che vuoi andare su da tuo padre..." Mi sussurrò, tirandomi delicatamente più vicino a lei: "Che ti ha chiesto di fare?" Mi chiese, i suoi occhi che affondavano impietosi nei miei.
"Una rapina." Le parole quasi uscirono automaticamente dalla mia bocca, quasi tirate fuori da quella donna che si imponeva di stazza e gentilezza.
Lei scosse un pochetto la testa, come se già sapeva la mia risposta e le mie parole erano solo di conferma: "Come sospettavo. Quella donna è incredibile. Stai attento, là fuori." Mi disse, il suo indice e medio che si erano fatti strada tra i miei capelli. Poi aggiunse un leggero: "Piccolo mio."
Ora, da così vicino, non doveva avere più di una trentacinquina di anni, nonostante il corpo grosso ma ben dosato e le braccia bronzee che tanto la facevano sembrare più matura di quanto in realtà fosse. Dovevo proprio avere una faccia da baccalà. Mi diede un colpetto sul braccio e lasciò andare la mia guancia, il gentile calore della sua mano che lasciò un tiepido stampo. Mi sorrise e ad un tratto ricordai cosa avevo da fare di così importante da richiedere una sveglia così anticipata: il colpo alla gioielleria, come se il mio cervello era arrivato ora a ciò che avevo detto. Mi congedai rapidamente da lei, che mi attirò a sé e mi stampò un umido bacio sulla guancia e le rivolsi un altro sorriso, prima di entrare dentro e prendere la mia roba: l'armatura, la spada e niente più, dando un ultimo sguardo alla ragazza prima di scappare via.
Passai le tende nere che portavano dentro la stanza e infilai subito un braccio nell'apposito foro. Sentii una mano sulla schiena e poi una voce, la mia testa fatalmente incastrata nella giubba. "Beh, che ti vesti, dentro a un corridoio? Lascia perdere che tanto dopo te li do io due vestiti." Disse la voce, Khan, prima di aggrapparmi la giubba e lanciarla a lato. Mi diede una pacca sulla spalla e mi diresse nel salone principale, mezzo pieno di gente che beveva e giocava a dadi, riempito di bestemmie e vetri rotti di bottiglia di quelli che avevano perso.
Khan aprì la porta e mi trascinò fuori, prima di chiuderla dietro di sé. Quel ragazzo era una forza della natura, si muoveva sopra quelle assi umide e marce come un furetto. Mi aggrappò il polso e si mosse sulle piattaforme, fino ad arrivare ad un posto sulla sponda della laguna dove uno squarcio si apriva dalla parete e sopra questo squarcio c'era un cartello scritto con caratteri dello stesso colore del sangue secco: "Distretto Abbey"."Il Distretto Abbey è una parte importante della città, eh. È dove la gente - quella ricca intendo, non i poveracci come noi...- va a comprare la loro roba, insomma. Cianfrusaglie, gioielli, mobili, tutto quello che ti può venire in mente, davvero." Khan sorrise, prima di aprire l'ennesima porta. Questa dava direttamente sopra una strada relativamente larga e decisamente vuota: le fiaccole brillavano chissà da quanto tempo ormai e dei lampionai neanche la minima traccia. Passare con un bastone incandescente ed accendere ogni fiaccola della città non era lavoro per tutti, dato che non tutti potevano fare kilometri e kilometri di vie e viuzze nelle fredde sere del deserto. Nel mio villaggio, ad Innershill, c'era un solo lampionaio ed era proprio il vecchio Wilhelm, con quel suo bastone infuocato che passava e accendeva i lampioni e poi la mattina prestissimo, all'alba, li spegneva con un soffio.
Khan camminò fuori e mi rivolse uno sguardo deciso. "Allora, la gioielleria dovrebbe essere dietro quell'angolo, ci siamo, eh."
Il sangue mi ribolliva nelle vene, con gli occhi che accompagnavano il frantico battito del cuore.
La città, a quell'ora della sera, era fresca che quasi non sembrava di stare in mezzo ad un deserto infuocato e metteva quasi paura il silenzio che c'era in quelle strade, tutto era fermo ma quel lume acceso al quarto piano, quella signora che si affacciava, quell'uomo che beveva dell'acqua mentre osservava le mura o chissà cosa.
Tirava un venticello leggero quando svoltammo l'angolo con fare circospetto, come se eravamo destinati ad essere catturati da un momento all'altro. Khan mi rivolse un sorriso piccolo, gesticolando verso l'insegna che dondolava ad ogni soffio di vento. Era un cuore circordato da un aura giallo oro e un fil di ferro che lo stringeva.
Comunque, eccolo il nostro tanto agognato obiettivo: la gioielleria era quella e adesso dovevano solo aprire la porta e portare a casa la pagnotta. Saltai sull'uscio, mentre Khan si guardava guardingo le spalle e automaticamente anche le mie. C'era un sottile spazio tra il muro e il pesante portone in metallo e legno, probabilmente lasciato da quel famoso complice e sotto c'era un piccolo pezzo di metallo, proprio per impedire al portone di chiudersi completamente. Inutile descrivere il grosso sorriso di Khan, che appena notò il piccolo oggetto iniziò a sghignazzare come un malato. Si chinò a toccare l'oggetto e contemporaneamente diede una piccola spinta al portone, che si mosse quasi silenziosamente. Sorrise ancora quando sentì la porta cigolare dolcemente, un suono che quasi si disperse nel vento. In un modo o nell'altro, eccoci dentro a quel grosso palazzo che di giorno era pieno di ricchi e gente che sicuramente non guardava alle tasche quando bisognava comperare qualcosa lì dentro, ma che di notte era un posto spettrale e cupo, l'occasionale cigolio delle tavole del piano di sopra mandavano giusto quella ottima dose di brividi lungo la schiena. Khan, con eccezionale destrezza in mezzo quel buio cupo e blu, si mosse tra teche e mobiletti, adocchiando mano mano i vari gioielli contenuti all'interno dei vetri. Poi, avendo trovato ciò che era di suo gradimento, faceva scivolare da sotto la manica un oggettino di metallo e cominciava a scassinare la serratura, eventualmente aprendola e raccogliendo il tanto agognato premio, alzandolo al cielo e guardandoci attraverso, sorridendo e lanciandolo a me. Lo raccoglievo e mettevo dentro la mia sacca che mi aveva precedentemente dato. E poi prendeva una collana, se la poggiava sul petto e si leccava le labbra e mi mandava un occhiolino, me la lanciava e rideva, una risata sfiatata, dato che era imperativo non farsi scoprire. Poi era il turno dell'anello, lo guardava il lungo e in largo, lo alzava e prendeva un grosso respiro. Infine, le tiare di tutti i colori, di giada e rubini e smeraldi. Che bel colore, che avevano quei smeraldi, di un verde che con la luce bluastra che filtrava dalle spesse finestre temprate antiscasso risplendevano come se avessero vita propria. E così continuammo per più o meno un quarto d'ora, fino a quando Khan non guardò le teche e decise che quello che avevano preso era abbastanza. Si fermò a darmi una grossa pacca sulla spalla e mi sorrise, guardando poi verso un punto non meglio precisato dietro di me. C'era una magnifica collana d'oro con un grosso rubino al centro, grande come un occhio e magnifico, semplicemente da perdere il fiato. A grandi passi ci andò vicino e cominciò ad armeggiare con la serratura, arrivando a una soluzione e aprendo la piccola teca in cui era contenuta. Ma invece di metterla nel sacco, me la diede in mano con un sorriso. Voleva che la dassi alla ragazza della Tenuta, Joseline.
Gli sorrisi gentilmente, evidentemente aveva capito che importanza aveva per me quella ragazza che da poco conoscevo ma che aveva fatto prepotentemente breccia di già nel mio cuore. "Grazie." Gli sussurrai, mentre i suoi occhi guardavano oltre i miei, oltre il mio volto, verso la scalinata.
Un tonfo cupo provenne da lì: qualcuno stava scendendo.
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A Knight's Tale {OVERHAULING}
FantasíaLa triste storia di un cavaliere, un giovane ragazzo in cerca di vendetta, un cavaliere che cerca di ritagliarsi la sua storia durante una guerra tra due regni, un uomo pronto a tutto per raggiungere i propri scopi, a raggiungere quell'effimera feli...