Serenità rubata

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Immediatamente, nulla ci fece desistere nel dare una degna sepoltura al corpo di Oksana, nemmeno il coprifuoco e i colpi di mortaio che gridavano in lontananza.

Insieme al portiere dello stabile e da sua moglie, uscimmo tutti fuori di corsa dal nostro palazzo.

La trovammo sdraiata a terra come se stesse riposando. I suoi capelli poggiavano sul manto erboso sventolati dal vento leggero, mentre gli occhi ancora aperti le davano un'espressione serena, come se per la prima volta dopo tanto tempo avesse ritrovato quella serenità rubata.

Se non fosse stato per quel rigolo di sangue che le colava dalle labbra nessuno si sarebbe accorto che fosse morta. Sembrava semplicemente sdraiata scomposta, aveva un'aria sognante.

Il portiere fece una buca profonda a circa cento metri dall'incidente.

Io e la moglie avvolgemmo Oksana in un lenzuolo bianco, il suo lenzuolo, poi, aiutate dal marito la facemmo scivolare giù per quella buca.

Ricordo ancora le mie lacrime e quelle delle altre ragazze. Tutti noi vivevamo da sempre in quel palazzo. Abbiamo praticamente visto crescere Oksana. Abbiamo da sempre visto il suo sorriso, e quello di mi figlia e delle altre ragazze si trasformarono con l'arrivo della guerra. Divennero bambole di cera e non più persone. Inespressive come le ragioni di chi non ne ha, come un giorno senza sole, come la morte dentro di chi è ancora vivo.

Successivamente non parlammo più di quell'avvenimento, Preferimmo dimenticare.

Non ricordo un solo giorno in cui qualcuna nominò ancora il suo nome dopo l'accaduto e non fu per freddezza, ma per sopravvivere al dolore. Un dolore che non trovava più spazio dentro di noi. Non ce ne dimenticammo mai, ma semplicemente non ne parlammo più nonostante si trovasse nello sguardo di ognuna di noi.

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Voglio raccontare di un fatto spiritoso adesso, uno dei pochi vissuti in quel periodo.

Svetlana e Irina stavano ritte davanti lo specchio.

Osservavano i loro corpi magri come se stessero guardando qualcosa che non gli appartenesse. Lo presero come un gioco per quanto macabro fosse.

«Guarda, mi si vedono leggermente le costole,» disse Svetlana.

Irina scosse la testa.

«Non è vero per niente, ma cosa blateri? avrai perso si e no tre chili dall'ultimo mese.»

«Parli tu che sei tale e quale,» protestò Irina.

A loro non dispiacque affatto vedersi più magre del solito. Come il periodo adolescenziale c'insegna, non è mai un male vedersi troppo magre a quell'età.

«Ufficialmente la più magra di tutte sono io,» dissi intervenendo nel discorso.

«In effetti è vero.» Confermò Irina con il suo lieve e ironico sorriso.

Il cibo spesso scarseggiava e se non fosse stato che il portiere essendo costretto a collaborare con il nemico poteva godere di quantità necessarie di alimenti anche per provvedere a noi, probabilmente saremmo morte di fame e stenti ancor prima.

Il signor Sobolev era di natura un buon uomo. Nonostante i rischi che correva, non fece mai il mio nome e di quelle ragazze, era troppo affezionato a loro per venderle al nemico. Avrebbe preferito la morte piuttosto che macchiare la sua coscienza e vivere con un peso del genere sullo stomaco. Ci aiutò sempre come riuscì, e forse, è anche per questo che il palazzo in cui vivevamo a differenza di altri nella zona, era quello messo meglio, il più integro.

Con quelle poche razione di cibo di cui potevo usufruire, le dividevo in parti uguali tranne che per me stessa. Spesso non bastava e preferivo digiunare pur di sfamare le ragazze.

Tra tutte le coinquiline ero la più magra, avevo perso quindici chilogrammi. Lo si notava dal mio volto scarnito e dalle spalle ossute.

Una volta ero una bella donna, ma in un tempo come quello la bellezza non era di certo il primo dei miei problemi. Come si faceva a pensare al lato estetico quando a malapena si riusciva a credere di esser ancora vivi? Io non ci feci mai caso e smisi di specchiarmi.

«Ragazze cosa vogliamo fare oggi?» domandai loro sfoggiando il migliore dei sorrisi.

«Giochiamo a nomi, cose e città,» si espresse Svetlana sotto lo sguardo perplesso di Irina.

«Ma che gioco stupido, dai...»

«Io propongo di leggere un racconto.» Si affacciò nel discorso mia figlia.

«E che libro vorresti leggere Raisa?,» domandai in attesa.

«Questo!» Disse mostrandomi un sorriso che non dimenticherò mai ed il libro di Omero, l'Odissea.

«Non ti sembra un po' pesante come lettura?» Le domandò Svetlana storcendo il naso.

«No, ci sono le sirene e a me piacciono le sirene.» Ribatté mia figlia. «Anche io vorrei essere una sirena e fare del male a quegli uomini che vogliono distruggerci, mi metterei a cantare come loro se solo potessi farlo e una volta caduti nella mia trappola li farei sparire per sempre.»

«Come sei crudele.»Le dissi con in sottofondo le risate delle altre ragazze.

«Però non ha tutti i torti.» Esternò Irina. «Se davvero avessimo anche solo il potere di ammaliare gli uomini con il nostro canto, probabilmente non ci sarebbe più nessuna guerra nella nostra città.»

Il silenzio come capitò spessissimo in quel periodo buio, riprese la parola per qualche istante. Troppa malinconia in quegli occhi per voler continuare a ridere e sorridere. Troppa ansia per far finta o provare ad esser felici.

Per smorzare quella sensazione di vuoto e disagio, mi avvicinai a mia figlia, le presi il libro dalle mani e sedendomi comodamente sul suo letto, venni raggiunta immediatamente dopo da Irina e Svetlana che si affiancarono a Raisa intente ad ascoltare.

Accarezzai i loro volti e m'immersi nella lettura cercando di farle emergere da quei pensieri cupi le avevano improvvisamente invase, non fu facile, ma ci riuscì. Le vidi completamente rapite dal racconto e quella mattinata prosegui serena, diversa.

Vista la situazione a loro bastava poco per esser felici. Bastava un piccolo gesto e un passatempo qualunque per distrarle. Eravamo carcerate nelle nostre stesse mura e non avevamo la possibilità di andare fuori a giocare.

Raramente il signor Sobolev mi chiamava sapendo che per qualche minuto il pericolo sarebbe cessato e avremmo avuto qualche minuto d'aria. Insieme a loro anche gli altri superstiti uscivano dalle loro tane sgranchendosi le gambe, così come Svetlana, Irina e Raisa, si buttavano a terra sul prato a piedi scalzi per respirarne quell'odore e calpestare gli steli d'erba che le facevano tornare indietro a quando erano solo delle bambine. A quando erano felici.

Fa male affogare in questi ricordi.

Fa male non avere ricordi di Oksana in quel frangente, più di quanto un mal di stomaco dopo giorni di digiuno possa fare ma è necessario ricordarle, glielo devo. Lo devo alla loro innocenza.

Io ho amato tutto di quelle ragazze, le loro fragilità, le loro difficoltà, le loro notti insonni.

Io ho amato e amo tutto di loro.

Le sirene di GorodtsvetovDove le storie prendono vita. Scoprilo ora