Hope

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«Mamma vieni a vedere.»

La voce di Raisa mi distolse dalle faccende di casa. Nonostante lo schifo, cercavo come meglio potevo, di non vivere nello scempio totale. L'ordine sarebbe servito anche a mantenere in equilibrio il mio stato psicologico. Non potevo abbandonarmi a me stessa, non potevo cedere e "cadere".

Mi avvicinai a mia figlia e vidi che assieme a Svetlana, se ne  stavano affacciate alla finestra a guardare qualcosa che le faceva star bene. Mi affacciai con loro e vidi il mistero di tanta gioia. Un gattino rosso stava sul prato a pochi passi dalla palazzina e miagolava con un fil di voce.

«Mamma possiamo prenderlo?» domandò Raisa con occhi lucidi.

«E' troppo pericoloso uscire fuori, figlia mia. Inoltre non avremmo la possibilità per mantenerlo, lo sai.»

«Ti prego mamma, fallo per me.» La sua voce era spezzata dall'emozione e dalla speranza di un mio si.

Come negare quell'unica gioia a mia figlia? Di gatti o cani se ne vedevano sempre meno in giro. Probabilmente per la mancanza di cibo, alcuni di loro fecero una brutta fine e sinceramente non volevo sentirmi complice anche di questo reato. Cambiai subito idea. Annuii e infilandomi un paio di scarpe, scesi velocemente giù per le scale. 

Una volta aperto il portone, afferrai il micio al volo e lo portai su con me. Era troppo piccolo e magro per ribellarsi, o forse, ciò che voleva era proprio quello di farsi prendere.

Una volta portato in casa, Raisa e Svetlana se lo passavano dolcemente tra un abbraccio e l'altro. Il gattino continuava a miagolare e solo successivamente capimmo che era una femminuccia. Quanta gioia nello sguardo di Raisa e Svetlana, quanta felicità nelle loro voci.

Di nascosto mi misi a piangere nell'emozione del vederle finalmente felici e andai in cucina a prendere quel poco di cibo che avevamo. La gattina, che nel frattempo ribattezzarono Hope (Speranza), iniziò a mangiare di gran gusto osservata dal nostro sguardo compiaciuto. Rimanemmo tutto il pomeriggio a giocare con lei che tanta vita aveva riportato dentro quelle quattro mura morte.

Ormai stanca si mise a dormire sul letto di mia figlia che non la perse di vista nemmeno per un secondo, si sdraiò al suo fianco e si addormento successivamente appresso a lei. Mi fece tenerezza quell'immagine, mi rincuorò facendomi credere che non tutto fosse perduto. L'umanità aveva ancora qualche possibilità di sopravvivere di fronte alla crudeltà che ci strangolava.

Io e Svetlana spesso parlavamo lontano da Raisa. Non discutevamo dei problemi o altro, so per certo che lei con me non si sarebbe mai confidata e preferiva mia figlia per farlo, anche se più piccola di lei di due anni. Parlavamo un po' di tutto e di niente, rimembravamo alcuni film visti in passato e ci chiedevamo perché il mondo fosse a guardare, complice di quel delitto che investiva la nostra terra. Ci facevamo domande su come sarebbe stato bello poter uscire e girare in lungo e largo il centro della città e di quanto ci mancava farlo. Di quanto ci mancavano le ciambelle della pasticceria, dei pomeriggi alle giostre, oppure di quanto sarebbe stato bello tornare a prendere il sole al lago quando io, lei , Raisa e sua madre, facevamo tempo addietro.

«Cosa darei anche solo per poter respirare l'aria del lago. Per potermi tuffare nelle sue acque e in quei ricordi che non vogliono morire.»

Nei discorsi di Svetlana ci stava sempre un misto di gioia e amarezza. Era combattuta come tutte noi, e, per quanto cercasse di mantenere vivi quei bei ricordi, un tumulto di sofferenza e malinconia le usciva sempre fuori.

Svetlana l'ultimo periodo mi aiutava molto nelle faccende domestiche. Lo faceva per aiutarmi, ma anche per distrarsi dai suoi pensieri. Un giorno Raisa mi confidò di averla sentita parlare nel sonno. Non so come io non abbia fatta a udirla, sta di fatto che farneticò parole come pace e silenzio, invocando il nome di Oksana e Irina.

Non parlavamo mai di loro, solo durante il sonno ci abbandonavamo ai loro ricordi. Anche a me successe.

Quella cosa non mi piacque molto, la paura che anche lei potesse fare qualcosa di tremendo mi balenò nella mente e non se ne andò più via da allora. La mia paura di un loro gesto estremo era già molto alto, ma vista la preoccupazione di mia figlia nel dirmelo, mi sconvolse totalmente.

Raisa come avrebbe potuto accettare una terza tragedia. Una ragazzina di quattordici anni non dovrebbe mai viverle queste cose. Come l'avrebbe affrontata questa volta essendo l'ultima sirena rimasta?!...

Pensai e ripensai più volte a quel discorso, divenne una vera ossessione, tanto che un giorno mi decisi a parlarne con la diretta interessata. 

Quel giorno la voce mi tremava, non era assolutamente un discorso da fare in quelle condizioni ma non avevo altra scelta, dovevo capire, volevo aiutarla, provarci ancora una volta a farlo.

Era l'ora di pranzo e approfittando dell'assenza di mia figlia che era in bagno, girai la mia sedia verso di lei. Svetlana mi guardò come se avesse intuito nella mia agitazione la fonte del discorso. Capì da subito che ciò che volevo chiederle non le avrebbe fatto piacere. Mi guardò in attesa senza mettermi fretta.

«Vuoi parlarmi di qualcosa Svetlana?»

Lei non rispose mantenendo lo sguardo fisso nel mio.

«Anche se non me lo dici, lo so che non è facile per te vivere con quei ricordi. Tirali fuori se vuoi, potrebbe farti bene.»

Allungai una mano nella sua direzione, ma lei scostandola mi fece capire di aver sbagliato. Di aver sbagliato tutto ancora una volta. Si alzò dalla sedia imbarazzata e si allontanò con il volto cupo.

Probabilmente le faceva male sapere che qualcuno avesse intuito un disagio così grande. Compresi immediatamente che nelle sue non risposte si celava qualcosa di tremendo, lo capii osservando quel suo sguardo spento, vuoto più del piatto che riversava sulla tavola.

Questi ricordi fanno male ogni volta che torno a raccontarli, ogni volta che raccontandoli a me stessa non portano quelle motivazioni che ho sempre cercato, ma solo dolore. Quel dolore che si è talmente radicato dentro di me che se non torno a ricordarli mi sento colpevole di averle abbandonate al loro destino.

Quel destino, che solo io sto vivendo lontano da loro.

Le sirene di GorodtsvetovDove le storie prendono vita. Scoprilo ora