Colpe invisibili

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Un ricordo nitido che ho impresso nella mente, è quello che la musica non fece mai parte delle nostre giornate.

Lei, che tanto l'amava, smise di ascoltarla dai primi giorni. 

Non credo che fu esclusivamente per il divieto tassativo che c'impose la nostra coscienza. Essere scoperte per un dono come la musica sarebbe stato davvero un controsenso, e, nonostante la possibilità di udirla in cuffia, mai nessuna di noi lo fece, nemmeno le altre ragazze.

La musica di solito ci porta a viaggiare in situazioni piacevoli da vivere, quando l'ascoltiamo, nella maggior parte dei casi è perché abbiamo voglia di ballare o di sognare. L'unica voglia che invece noi avevamo era quello di sperare, di credere che qualcosa potesse cambiare.

Passò un mese dalla prima e ultima volta che Leonid venne a trovarci. 

Venni a sapere dal signor Sobolev, che cadde ucciso insieme ai suoi nonni in uno dei tanti bombardamenti che si intensificarono nella zona. Non ebbi il coraggio di dirlo a Raisa. Non ricordo un giorno che non fece il suo nome.

«Mamma, quando potrà venirci a trovare nuovamente Leonid?»

«Mamma, invitiamo Leonid e sua nonna a casa nostra?»

«Mamma, ho bisogno di parlare con quel ragazzo, mi sento sola...»

Ricadde nuovamente nella solitudine senza sapere la sorte che fece il giovane. Smise anche di dare attenzioni a quella micina che tanto adorava, restava lì a fissare la finestra sperando ancora in un ritorno di Svetlana e ricopiando i disegni che le aveva regalato Leonid. Mia figlia si stava spegnendo come l'ultima speranza che davvero ci sarebbe potuta essere, una possibilità, un futuro.

Durante i pasti non parlavamo quasi più, eravamo simili alle nostre stesse ombre.

Vagavamo inquiete nella casa senza nemmeno più parlare. Ci guardavamo e basta. Bastava uno sguardo per capire che ci sarebbe stato ben poco su cui discutere.

Una notte ebbi un incubo. Sognai che i soldati fecero irruzione in casa nostra e me la portavano via. Era talmente vivo, che non si distingueva l'incubo dalla realtà. Mi svegliai sudata e con uno stato di agitazione in corpo che mi prese d'assalto. Aprendo gli occhi non trovai Raisa sdraiata al mio fianco, stava ancora davanti alla solita finestra a guardare fuori nel buio della notte. Non la riconoscevo quasi più.

I suoi soliti comportamenti vennero sempre più a mancare lasciando spazio a scatti d'ira e nervosismo. Stava attraversando il periodo più difficile di sempre, mi diede perfino la colpa che ero io che non volevo farla incontrare con Leonid. Per lei ero diventata la causa dei suoi mali. La sua infelicità.

Smise di dormire e iniziò a fare scarabocchi sui fogli. Mi urlava contro appena mi avvicinavo a lei, non era più la Raisa che un tempo conoscevo. Inerme a quella ingiustizia per me fu sempre più difficile trovare un contatto con lei, fino a quando mi lanciò degli oggetti contro insultandomi e piangendo.

Come si fa ad odiare così la propria madre? Che colpa avevo io di quello che stava succedendo. Ricordo ancora quella mattina che non si presentò a tavola per la mediocre colazione. Aveva nuovamente portato la sua roba nella stanza a fianco. Voleva stare lontana da me, era sempre più convinta che fosse tutta mia la colpa. Si era convinta che io non volessi aiutarla in nessun modo. Mi avvicinai per parlarle, eppure mi diede le spalle senza rispondermi. Mi misi a piangere nella sua totale indifferenza.

«Dimmi una cosa figlia mia: almeno quando sogni, sei ancora la Raisa che conosco io?»

Lei non rispose anche se la sentì singhiozzare. Prese l'Odissea, il libro che tanto amava e lo lanciò contro la parete della sua stanza. Mi allontanai con il cuore in gola, con la paura che non avrebbe mai capito quanto in realtà io non volessi la sua infelicità.

Visto che la situazione si faceva sempre più tesa tra di noi, fui costretta a dirle la verità su Leonid. Temevo per il suo equilibrio mentale una volta rivelatole questa brutta notizia, ma temevo comunque per la sua salute visti i lividi che le si formavano sul suo corpo. Stava diventando autolesionista e nel dolore della situazione, sperai che quella notizia potesse riavvicinarla a me, che nel dolore di quella pessima scoperta avesse avuto voglia di ritrovare in me quella sicurezza che una volta vedeva.

Mi sbagliai.

Smise di mangiare e dormire, non pianse più, non disegnava e non si curava, non dava da mangiare a Hope e non l'accarezzava più, smise perfino di parlare con i signori Sobolev che tanto adorava, smise di fare tutto. Le rimase solo il respiro, quel respiro affannato di chi sopravvive senza voglia di farlo.

Mi sentivo uno schifo nel vedere che le sue giornate passavano standosene buttata sul letto come uno straccio vecchio. Troppo debole per intervenire, io, che quando suo padre era in vita gestiva tutto lui. Che era lui quello che risolveva i problemi di casa, che era sempre lui che tanto ci mancava in momenti come questo.

Io e Raisa ci perdemmo come persone. Eravamo diventate due sconosciute colpevoli soltanto di non esser abbastanza forti per tirare avanti.

Io e mia figlia invecchiammo in un mese. 

Le sirene di GorodtsvetovDove le storie prendono vita. Scoprilo ora