Capitolo 5. Chris

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Quel giorno era il suo compleanno e io ero indeciso sul da farsi. Dovevo andare? Ero riuscito ad infilarmi alla sua festa a sorpresa in classe semplicemente perché l'avevo accompagnata in aula, non ero stato incluso, giustamente. 

Le amiche non mi conoscevano, lei non mi conosceva, lei non poteva sapere che erano mesi che la osservavo. Se lo avesse saputo probabilmente mi avrebbe preso per maniaco.  Due mesi dal giorno in cui i miei occhi si erano posati su di lei, due mesi che avevo imposto la mia presenza ai sui allenamenti, due mesi che cercavo di scoprire ogni piccolo dettaglio della sua vita, che imparavo a conoscere il suo carattere schietto e schivo mentre tra un tiro ed un altro esultava, imprecava , si divertiva. 

Dopo Charlotte non avrei mai creduto di potermi avvicinare di nuovo a qualcuno, Charlie mi aveva fatto disilludere completamente sull'amore. Ero passato, grazie a lei, ad essere il popolare capitano della squadra, allo zerbino di turno. E non lo avrei permesso mai più.

Ma una sera, dopo l'ennesimo litigio, andai al parco di fronte casa, palla alla mano e cuffie nelle orecchie. Il ritmo dei miei pensieri era insostenibile. Correvo , tiravo , mi allenavo.  Non esistevo per il mondo esterno, ero solo io e il mio dolore. Non riuscivo a far altro che a pensare alla sensazione di impotenza che avvertii quando pochi minuti prima Charlie mi aveva detto di aver baciato un altro. Uno sconosciuto, conosciuto in discoteca da ubriaca.

C'è stato solo un altro giorno in cui mi sono sentito così inutile, ed è stato il giorno in cui avevo perso mia madre e un po' anche mio padre.

Il giorno in cui le urla dei miei sovrastavano le fantasie  in cui mi rifugiavo, in cui le mie certezze crollarono del tutto, le mie sicurezze di bambino si distrussero del tutto. L'unica cosa che ricordo ancora era il pensiero che mi svegliò da allora tutte le mattine  "se non è riuscita ad amarmi lei, chi altro potrebbe farlo?"

Mio padre non era più lo stesso, immerso nel lavoro, mentre io crescevo un po' da solo. 

Sindrome dell'abbandono credo si chiami. 

Ma quella sera qualcosa cambiò. Vivevo la mia crisi, tra sudore e stanchezza, e poi la vidi in un angolo del campo illuminata dalla luce fredda del lampione. Blocco da disegno alla mano, capelli legati e occhi concentrati su mani che schizzavano veloci. Ricordo di aver pensato che quel nervosismo maniacale, quella velocità nel muoversi la conoscevo bene, era la stessa mia. Febbrile, nervosa, sofferente, sola. Mi bloccai a guardarla quell'anima devastata così simile alla mia, la schiena ricurva e le gambe tirate su quasi a volersi proteggere da ciò che la circondava, da chissà quale demone che le tormentava il cuore. 

In quel momento, in quel preciso istante, le lasciai parte della mia anima. Notai una lacrima lucida che scendendo bagnò il foglio, notai la fronte imperlata di sudore, il sudore di chi sta affrontando una lotta con se stessi. Cercavo di sopprimere la voglia di andarle vicino, avrei voluto urlare alzati, reagisci combatti di più. Avrei voluto  abbracciarla,  così come avrei voluto che qualcuno abbracciasse me in quel momento. Ma io ero un estraneo che si allenava, lei una sconosciuta che piangeva. E per quanto sentissi che la mia anima fosse affine alla sua, io ,lei , noi... non eravamo niente l'uno per l'altro e dunque non avevo neanche il diritto di potermi sentire "affine". 

Ripresi la palla in mano e per il resto dell'allenamento indugiai su quei pensieri. Quando decisi di andar  via, esausto e leggermente più calmo, mi avvicinai alla borsa della palestra alla ricerca di una bottiglia d'acqua. Alzai lo sguardo su di lei mentre bevevo e notai altri particolari. La pelle bianca, gli occhi grandi, le labbra carnose. La mia mente che fino ad allora era stata concentrata solo ed unicamente sull'immagine di Charlie che baciava un altro , si annullò. Il vuoto e nulla più, c'era solo lei, lei e io.  Fisicamente a dieci metri di distanza, mentalmente lontani centinaia di chilometri. Istintivamente mi avvicinai, feci qualche passo verso di lei , testa inclinata di lato mentre continuavo a fissarla. Alzò lo sguardo improvvisamente, come se si fosse appena accorta di me, gli occhi pieni di lacrime, lacrime che non scendevano ma che restavano intrappolate lì, nel fondo della sua anima,percepii come quel macigno che le attanagliava l'anima si ostinava a tenerla giù. Una frazione di secondo, un sospiro e poi di nuovo giù in quel mondo solo suo, un mondo che avrei tanto voluto conoscere. Posai l'acqua, chiusi la borsa, presi il pallone e mi voltai costringendomi a voltare lo sguardo. Quel gesto forzato che mi imposi di fare molto lentamente mi fece notare una cosa, uno grosso borsone rosso e nero, lo stesso mio.

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