LIBRO PRIMOARRIVO IN GIAPPONE
не забывай меня.
Non dimenticarti di me.
Terzo capitolo
Camera mia non è male. Non è male per niente. Il letto è grande, credo sia a una piazza e mezza ma di queste cose non ne ho mai capito molto, ed è a baldacchino. Penso che papà lo abbia cercato incessantemente, perché sa quanto io adori il mobilio del romanticismo. Bisogna ammettere, però, che quell'unico accessorio stona con il resto dell'intera casa arredata in modo moderno e minimalista. Poco mi importa. Il rosso delle tende che sono legate alle travi ravviva l'intero ambiente che mi accoglierà per intere giornate nei prossimi anni.
Metto a posto l'ultimo libro e mi guardo attorno nuovamente. Ho una bella vista sulla città, siamo al settimo piano dopotutto, sebbene questo non mi faccia impazzire. L'altezza mi spaventa, mi incute timore. Penso che non uscirò mai sul terrazzino che si apre dietro la porta finestra. Il solo pensiero di mettere piede lì fuori scatena nella mia mente le immagini più inquietanti e strane possibili. Mi vedo cadere, precipitare nel vuoto e schiantarmi a terra. Mi stringo nelle braccia scuotendo il capo, dando le spalle a quel vetro tanto freddo e lucido che sembra guardarmi e ghignare.
Esco dalla stanza e percorro il corridoio di parquet sbucando poi in salotto, dove la luce entra dalla parete a vetrata che funge da quadro vivente. Guardo la mamma già impegnata dietro il banco della cucina, il buon odore che mi arriva alle narici, e mio padre intento a lavorare sul suo computer. E' strano pensare che, finalmente, siamo tutti insieme. Strano ma bello.
Mi accomodo sullo sgabello della penisola, unendo le mani sul ripiano di granito che la compone. Gli occhi della mamma mi sorridono e così anche quelli di papà.
«Dopo pranzo vi va di andare a vedere un po' la città? La nonna non tornerà prima di domani, potrebbe essere una buona occasione per curiosare in giro» butta lì a un tratto lui. Le dita si muovono ancora veloci sulla tastiera del computer, ma sembra che non se ne renda nemmeno conto. Ogni tanto mi guarda di sbieco, prima di tornare al monitor.
La mamma si asciuga le mani a uno strofinaccio e annuisce. «Giusto. Cosa ne pensi, Miele?»
Arriccio le labbra e penso ai pro e i contro di quella proposta. Prima o poi dovrò iniziare a uscire e conoscere la città, iniziare a imparare a leggere bene quella lingua fatta di segni e ideogrammi. Cosa fare?
Alleggerisco le spalle, non mi ero nemmeno accorta che le avevo irrigidite, e annuisco. «Tanto prima o poi dovrò uscire, no?»
Papà sorride e mi accarezza la schiena. Ha gli occhi che brillano di una luce nuova, raggiante. Mi fa quasi paura. «Vedrai che Tokyo ti piacerà» afferma tutto convinto. «Certo, è un po' caotica e non c'è il mare dell'Italia o di Los Angeles, ma ci farai l'abitudine.»
Non ne dubito, vorrei dirgli ma tutto quello che faccio è annuire sorridendo di rimando. Non vorrei mai che pensasse che non sono contenta di stare qui. E' solo che... è tutto così differente da dov'ero prima e il fatto di dover ricominciare da capo mi ha ormai stufato. Sono conscia del fatto che questo non sarà l'ultimo trasloco della mia vita, ma non sono certa che potrei reggerne un altro. Visitare il mondo è meraviglioso, affezionarsi ai luoghi è splendido, conoscere nuove persone e stringerci amicizia è fantastico. Lasciare andare tutto quello che hai costruito è una cosa totalmente distruttiva, specialmente se hai quattordici anni e il mondo ti sembra una specie di meravigliosa lama a doppio taglio.
Mi muovo veloce come un fulmine, facendomi spazio tra le persone e ignorando i richiami dei miei genitori. Mi blocco soltanto quando sono arrivata alla mia meta, e i miei palmi si poggiano sulla ringhiera che mi divide dal recinto.
Non posso vedermi, ma sono sicura che se potessi scoprirei i miei occhi brillare di curiosità e gioia. Affermo che sono più una tipa da felini che da orsi, ma non ho mai visto un panda se non in foto e adesso che ce l'ho davanti è proprio come l'avevo immaginato: grande, ciccione e goloso. Il ramo di bambù che tiene fra le zampe finisce presto e viene rimpiazzato da un altro. I suoi piccoli occhi cerchiati di nero si guardano attorno, non soffermandosi su nulla in particolare.
E' un essere tenero. Mi piace.
Imbraccio il telefono e lo inquadro mettendo a fuoco. Scatto. «Ecco, ora sei parte dei miei ricordi» sussurro, voltandomi felice per incontrare gli occhi nocciola di un ragazzino. Sobbalzo spaventata e colta alla sprovvista, lui fa lo stesso. Senza rendermene conto mi esce dalle labbra anche un piccolo urletto strozzato.
Il telefono scivola dalla mia presa e precipita a terra, arrivando a sfiorare il pavimento per un soffio. Il tipo si dimostra più veloce e lo salva, riporgendomelo. Lo prendo e, svelta come una lepre, lo metto via.
«Scusami» afferma, infilando le mani nelle tasche della giacca.
«Grazie» mormoro contemporaneamente io, indecisa sulla corretta pronuncia. Tiro su gli occhiali da vista, guardandomi attorno in cerca dei miei genitori. Eccoli, intenti a parlare con una coppia sorridente.
Il ragazzino, più o meno deve avere la mia età, segue la traiettoria del mio sguardo e indica il gruppetto di persone con fare tranquillo. «Sono i miei genitori. I nostri papà lavorano assieme, sai?» mi informa. Parla piano e scandendo bene le parole così che mi riesca più semplice comprendere cosa sta dicendo. «Io mi chiamo Wakamatsu Kōsuke, piacere.»
«Piacere di conoscerti, Kō.» Il ragazzo inarca le sopracciglia e mi guarda come se lo avessi preso a schiaffi. Non capendo, piego la testa di lato e allungo una mano verso di lui. «Io mi chiamo Aomori Miele.» Quando, dopo qualche secondo, lui non la stringe la ritiro e socchiude le labbra. «Qualcosa non va, Kō?»
Lui arrossisce dalla punta delle orecchie al ponticello del naso. Si passa una mano fra i capelli biondo cenere e alza lo sguardo al cielo. «Qui non si usa dare soprannomi appena ci si conosce» afferma imbarazzato «è simbolo di intimità.»
«Oh. OH.» Stendo le braccia verso di lui e le agito, iniziando a ripetere "scusa" più e più volte. Il risultato è che lui arrossisce solo di più e il senso di vergogna che provo io in seguito alla figuraccia mi porta quasi a piangere. Ho sbagliato. Gli ho mancato di rispetto e non volevo. A un tratto unisco i palmi e mi inchino, con i capelli che quasi sfiorano il pavimento a causa della mia altezza. «Scusa» singhiozzo «non era mia intenzione mancarti di rispetto, Wakatoshi-san!»
Bisogna ammettere che come primo approccio con un giapponese me la sono cavata bene. Ho appena inaugurato la mia vita in Giappone con una colossale e plateale figuraccia.
Potrebbe andare peggio di così?
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Miele
FanfictionMi sarebbe piaciuto essere una di quelle che lui si fermava a guardare per lunghi istanti. Avrei voluto esserla. Ho desiderato per così tante sere di poter stare tra le sua braccia anche solo per poche ore, anche solo per una notte di passione. Non...