Secondo capitolo

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LIBRO PRIMO

ARRIVO IN GIAPPONE





не забывай меня.

Non dimenticarti di me.





Secondo capitolo





Ammetto che l'aeroporto di Haneda -Tokyo- è impressionante. La cosa che mi rapisce di più mentre esco dal gate, diretta allo scalo bagagli, è la grande scritta in stampatello nero che recita "WELCOME TO JAPAN". La sua vista mi colpisce come farebbe uno schiaffo portentoso, facendomi precipitare nella realtà più assoluta che abbia mai provato fino ad ora.

La gente si muove veloce e frenetica, esclamando degli "Scusi!" senza però pensarli realmente; non sono scema, lo so che è così, perché è la stessa cosa che faccio anche io quando colpisco una signora inglese per sbaglio. Non mi interessa nulla di lei, ma è buona educazione. Dopo di che, mi aggancio alla mano della mamma, stringendola forte fra le mie dita. Ha la pelle calda e morbida, il tocco delicato che mi fa sentire protetta. Cerco di imprimermi queste cose nella memoria perché non voglio dimenticarle; pur sapendo che la rivedrò non voglio che nemmeno un suo dettaglio mi sfugga quando non ci sarà. Sono piccoli frammenti, questi che tento di far diventare miei, che meritano di essere ricordati perché appartengono a una persona che amo. Una persona che amo e che presto partirà senza di me. Il solo pensiero mi fa star male.

«Miele, tesoro, arrivano i tuoi bagagli» mi dice la mamma, facendomi notare le due grosse valige bianche che si dirigono verso di noi. Annuisco e le tiro giù dal nastro.

Sembrano stranamente leggere ora che le ritocco, dopo ore e ore di volo passate a osservare l'infinito. E' come se un po' dell'ansia che mi aveva accompagnata mentre le preparavo si fosse dissipata durante il volo, liberandole dal peso inutile. Meglio così, faticherò di meno a trascinarle verso l'uscita.

«Senti mamma» dico a un tratto, mentre le ruote delle valige rumoreggiano contro il pavimento, «perché la nonna e il nonno non abitavano assieme?»

Gli occhi scuri di mia madre si spalancano, poi si nascono dietro le lunghe ciglia scure di mascara. La vedo alzare le spalle con disinteresse, prima di arricciare le labbra e dire: «Si sono separati, tutto qui.»

«E perché papà era in Italia, quando ti ha conosciuta?»

«Era andato ad abitare da suo padre, per frequentare un'università linguistica. Perché tutte queste domande?» Mi osserva interrogativa, alzando un sopracciglio interdetta.

La capisco, dopotutto non ho mai fatto troppe domande sulla mia famiglia (specialmente sul ramo giapponese di essa). Ma perché? Beh, probabilmente non ho mai trovato un buon motivo per farlo. Eppure adesso mi sento così curiosa che non so neppure cosa risponderle.

Opto per una semplicissima parola, che può colmare i dubbi e -al contempo- ingrandirli esponenzialmente. «Così.» Quattro lettere. Un significato. A lei la scelta di capire quale.

Mugugna, ma non replica. Stringe i suoi bagagli e va avanti.

La guardo. Mi piacciono le sue spalle dritte e il suo mento alto, la fanno sembrare una signora sicura di se; mi piace il modo in cui cammina, mettendo un piede avanti all'altro, e il modo in cui la sua figura si coreografa perfettamente a quell'andatura da signora d'affari. Spingo dentro i miei ricordi questa immagine. Farò tesoro di tutto ciò.

Mentre camminiamo silenziose per il grande aeroporto noto che siamo vicine all'uscita. Attorno a noi c'è una folla in continuo movimento. Tutti hanno le stesse facce, le stesse voci, lo stesso modo di muoversi. Come troverò mio padre in mezzo a questo caos? Come farò a riconoscerlo? Come potrò vivere in un luogo dove tutti sembrano una copia sputata del loro vicino?

Rafforzo la presa sui manici delle valige e affretto il passo, accostandomi a mia madre. Anche lei sembra disturbata, ma non dall'uguaglianza delle persone bensì dall'uomo che si trova davanti a noi.

Il tipo ha un mazzo di fiori in mano, che gli coprono il viso rendendolo simile a un cespuglio con le gambe. Gambe lunghe, oserei dire, e fasciate da terribili pantaloni blu.

Riguardo la mamma e solo ora noto che non è disturbata, in realtà è imbarazzata. Ha le guance rosse e osserva tutto meno che l'uomo che adesso le sorride. Però, quando gli arriva davanti e lui la abbraccia lei ricambia la stretta forte e per tanto tempo. Gli concede anche un bacio, uno di quelli che schioccano. Non mi imbarazza vederli fare così, perché sono talmente poche le volte che succede che non mi va di rovinare il momento.

Papà le porge il mazzo di fiori, che lei accetta con un "Grazie" felice, poi mi raccoglie in una stretta dolce e profumata di lui. Mi è mancato. Sono sette mesi che non lo vedo e la sua mancanza mi cade sulle spalle adesso che ce l'ho vicino. Appallottolo la sua giacca nei miei pugni, sfregandomi contro la sua camicia fresca.

«Ecco le mie donne! Forza andiamo.» esclama sorridente, prendendo una valigia per mano. Io e la mamma lo seguiamo fuori, verso una macchina parcheggiata in divieto di sosta. La mamma lo sgrida, mentre gli passa la roba da mettere nel bagagliaio. Lui ride e afferma che gli è mancato il suo chiacchiericcio, prima di chiudere tutto e salire al posto del guidatore.

Mentre partiamo, mi soffermo a osservare il cielo nitido che mi si para davanti. Non vi è una nuvola. Deludente. Mi ero aspettata di trovare grigiore e tristezza remota ad ogni angolo che avrei girato e invece, qui di triste c'è solo questa visione fasulla.

Mi imbroncio, stranamente affranta di aver appreso una verità diversa dalla mia. Sono tentata di tirare fuori il cellulare e fotografare la grande metropoli che si avvicina sempre di più, però non lo faccio. Avrò anni per scattare fotografie a tutto ciò, adesso tutto quello che devo fare è godermi la vista e tentare di memorizzare qualcosa. Qualunque cosa.

Passiamo in mezzo al caos cittadino e imbocchiamo una strada meno trafficata. C'è più verde qui intorno e i meravigliosi ciliegi di cui ho letto tanto sono in fiore; i loro petali frusciano nell'aria come se fossero lo scialle del vento. Sono bellissimi.

«Miele» mi richiama papà «stiamo per passare davanti alla tua nuova scuola.» Scivolo dietro il suo seggiolino e osservo il grande istituto bianco che mi si para davanti agli occhi. E' immenso.

Immenso e pieno di studenti.

L'ansia mi assale nuovamente e mi costringe a distogliere lo sguardo, preoccupata per quello che ne sarà di me. Sarò di nuovo quella nuova. Dovrò ricominciare di nuovo da capo. Tutti mi etichetteranno di nuovo come la straniera.

Dovrò ricominciare di nuovo tutto da capo, da sola.

La morsa allo stomaco si rafforza portandomi a guardare fissa il sedile davanti a me. «Ti piace?» domanda mio padre.

«Si » è l'unica risposta che ottiene da me, perché poi mi infilo le cuffie e non do più peso alle sue parole.

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