CAPITOLO 1

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Rientrando a casa dal lavoro, mi si riempie il cuore di gioia nel rivederla di notte. Rimango, sempre, affascinata dalla sua bellezza, mi lascia senza fiato. E' il mio prisma dalle luci cangianti, dalle mille sfaccettature, la rappresentazione plastica dell'uomo con i suoi pregi e i suoi difetti. Amo New York City, città intrigante e tentacolare, dalle svariate etnie e molteplici religioni, che trasmette la meravigliosa sensazione di avere il mondo a portata di mano, senza sentire il bisogno di viaggiare, per conoscerlo. Sono passati sette anni da quando abbandonai casa, lasciandomi alle spalle una vita agiata per condurne una meno lussuosa. Come gli spartani: stile sobrio e privo di frivolezze, da non salvarli, comunque, da una fine drammatica. E anche se le circostanze mi hanno proiettato in uno status diverso, considero questi anni come una lunga vacanza da una vita dalla quale sarebbe stato difficile sottrarsi, pur rendendomi conto che, nel bene o nel male, non sarei stata più la stessa ragazza di un tempo. Nel recente passato, rappresentavo il prototipo di quella crassa e opulenta aristocrazia finanziaria che pullula nei lampeggianti grattacieli di Manhattan. Mio padre, Jonathan Evans, fu un importante uomo d'affari. Laureato in legge alla Columbia University: dopo il conseguimento di alcuni master, fu assunto da unimportante holding che si occupava, principalmente, di acquisire compagnie in difficoltà o in fase fallimentare, per poi ricapitalizzarle e trasformarle in floride società multinazionali. Divenne presto un "rainmaker" (luomo della pioggia) - così è definito chi arricchisce la società per cui lavora -. Non gli fu, quindi, difficile la scalata ai vertici societari: promosso prima Amministratore delegato e, in seguito, eletto Presidente della stessa multinazionale. Pur pienamente impegnato nei suoi affari costituì sempre un costante punto di riferimento in ogni momento importante della mia vita fino al compimento dei miei quindici anni, quando mancò improvvisamente. Sono certa che gli ultimi pensieri furono rivolti a me, in una sorta di estrema e amorevole protezione. Mia madre, Jordan Davenport, nella vita aveva un unico, precipuo scopo: apparire e risplendere di luce propria, come una star nel mondo dorato dellalta società. Bizzosa, cinica e virtuosa dellinganno, organizzava serate di beneficenza per soddisfare il suo ego dominante e poter contare su una corte prona e sempre ligia ai suoi voleri. Millantava dipingere quadri: in realtà si limitava a firmarli, dopo averli acquistati per cifre esorbitanti, da un ghostpainter , pittore anonimo e discreto. Cercò di plasmarmi a sua immagine e somiglianza, accelerando questo processo dal momento in cui, alla morte di mio padre, assunse le redini della Compagnia. Silluse, nello stesso tempo, di poter controllare, pienamente, anche la mia vita. Un'impresa alquanto ardua, la più difficile e, probabilmente, l'unica che non riuscì ad assolvere pienamente.

1° Giugno 2011.

Suonavano alla porta, ma mi sentivo troppo stanca per alzarmi. Sprofondai giù, fin sotto le coperte provando a non sentire: ma quel gracchiante campanello non smetteva più di suonare. Avrei dovuto cambiarlo già da qualche tempo con uno meno fastidioso, forse eliminarlo del tutto. Non sapevo né l'ora né chi fosse a bussare alla porta: probabilmente il postino, come sempre puntuale alla consegna delle bollette, alle dieci spaccate. Possibile che erano già trascorse cinque ore dal mio rientro a casa? Le ore di lavoro sembravano interminabili e le notti troppo lunghe, tanto che il mio riposo si era talmente ridotto, da provocarmi forti emicranie. Ero anche perseguitata da ripetuti incubi, iniziati proprio dal giorno in cui smisi di prendere farmaci, tranquillanti che mi aiutassero a star meglio. Con malavoglia, decisi di alzarmi e finirla con quella tortura, anteponendo un mal di testa da mancato riposo, al ripetersi di quel fastidioso scampanellio. Andai ad aprire la porta, senza curarmi troppo delle condizioni in cui versavo, immaginando già l'identità dello scocciatore. Mi si presentò, invece, un viso carino, dal sorriso smagliante. Era lei, chi altri sennò e unimprovvisa allegria colorò una giornata terribilmente uggiosa. Non ricevevo molte visite, anzi nessuna: odiavo avere gente intorno, soprattutto nel mio appartamento, luogo di culto destinato unicamente alla mia privacy. Julia faceva parte di una ristretta cerchia di persone che mi ruotava intorno: leccezione alla regola che mi ero imposta. Una ragazza allegra, solare e piena di vita: non stava mai ferma, c'era sempre qualcosa da fare con lei e se non c'era, si trovava. Non disdegnavo per nulla la sua compagnia, era l'unica che in qualche modo riuscisse a farmi sorridere. I suoi capelli biondi, leggermente mossi e luminosi, erano come onde leggere, gli occhi cerulei non assumevano mai un colore ben definito. Ricordo che, in più di unoccasione, l'azzurro delle sue pupille, con il riflesso rosso del tramonto assumeva una leggera tonalità di viola. Il suo piccolo nasino era ben disegnato e le labbra piccole, leggermente sporgenti: il tutto racchiuso da un viso rotondo, dalla pelle chiara e delicata e due guance rosee da farla sembrare una bambola di porcellana. Con voce strillante, quasi quanto il campanello, m'incitava a svegliarmi, intanto, barcollavo dal sonno, improvvidamente interrotto.

Quelle Allineate Scarpe RosseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora