2. Making new "friends"

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Col tempo, effettivamente, le cose migliorarono. Ci vollero settimane, mesi, ma mamma migliorò, papà tornò a sorridere come faceva un tempo e nonna si dimostrò la combattente che avevo immaginato fosse. Ci salvò, probabilmente.

Ma se pensando a quel periodo dovessi scegliere un giorno che la vita me la cambiò davvero non avrei dubbi.



Era la mia terza settimana di scuola, il mercoledì per l'esattezza. Arrivai a scuola con il mio solito umore ottimista e aperto al mondo e, prima dell'inizio delle lezioni, successe una cosa che mi scombussolò completamente la giornata e un'altra cosa che mi cambiò completamente la vita.

La prima, per non farsi mancare niente, fu un'iniziativa di quel Patterson. Ero tranquilla, impegnata a sistemare i libri dentro al mio armadietto, quando una voce alle mie spalle mi fece trasalire in modo molto evidente.

"Ehi, novellina."

Per la sorpresa nel girarmi andai a sbattere col braccio contro l'anta aperta del mio armadietto, prendendo una bella botta. Trattenni a stento un'imprecazione, ma i guai erano appena cominciati: appena mi voltai, infatti, mi trovai davanti al ghigno ironico e divertito di nientepopodimeno che Matthew J. Patterson in persona.

All'inizio rimasi talmente interdetta che mi mancarono le parole, così continuai solo a massaggiarmi il braccio leso con veemenza. Poi tornai in me, raddrizzai il busto, alzai il mento e parlai, scocciata.

"Che vuoi?" chiesi, incapace di immaginarmi una sua qualsiasi risposta.

In quei quindici giorni di scuola appena trascorsi, infatti, lui non aveva fatto altro che ignorarmi del tutto: non mi aveva degnato di un solo sguardo, anche se frequentavamo più di un corso assieme, essendo dello stesso anno. Non che la cosa mi stupisse più di tanto. Insomma, l'unica volta in cui le nostre strade si erano in qualche modo incrociate era quando gli ero bellamente andata a sbattere contro e non mi aspettavo certo che da lì cominciasse a salutarmi o robe simili. Un cafone rimane sempre un cafone, pensavo, e all'epoca consideravo Matt un vero deficiente borioso e maleducato. E non ci tenevo ad avere a che fare con lui.

Comunque, la risposta di Patterson in quell'occasione mi lasciò a dir poco esterrefatta. Continuando a sorridere, allungò il braccio verso di me e aprì la mano, porgendomi qualcosa.

"Penso che questo sia tuo," disse, ignorando il mio sguardo d'odio puro.

Io smisi tutto d'un tratto di massaggiarmi il braccio, cosa che avevo continuato a fare fino a quel momento, e guardai sbalordita il palmo della sua mano, sul quale spiccava tranquillo il mio braccialettino verde. Ce l'avevo solo da qualche mese ma ci tenevo moltissimo, quel braccialetto di stoffa me l'aveva regalato mia nonna quando ancora vivevo a Oakland e lei ne aveva uno uguale: era il suo modo per starmi vicina anche quand'eravamo lontane. Il giorno prima, a casa, mi ero accorta di non averlo più e ci ero rimasta parecchio male.

Perciò restai letteralmente a bocca aperta. "Dove... Quando me l'hai preso?" balbettai, sorpresa e sospettosa.

Lui schioccò la lingua, più divertito che infastidito dalla mia non troppo celata accusa di furto. "Ieri l'hai lasciato sul banco dopo la lezione di Matematica," spiegò, e io mi sentii un'idiota: non avrebbe avuto motivo per prendermi volontariamente il braccialetto, ero stata stupida anche solo a farmelo passare per l'anticamera del cervello.

Restavo comunque diffidente nei suoi confronti, le vecchie abitudini sono dure a morire. Così presi ciò che mi stava porgendo e bofonchiai un ringraziamento prima di tentare di girarmi di nuovo verso l'armadietto per tornare alla mia occupazione. Ma Matt mi bloccò prendendomi un braccio e facendomi trasalire per la seconda volta.

Crumbling awayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora