5. How to silence a bully

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Il terzo anno di liceo iniziò e, sorprendentemente, ne fui contenta. Sono sempre stata iperattiva di natura e andare a scuola, vedere gente tutti i giorni, poter parlare e stare sempre coi miei amici, in fondo, mi piaceva.

C'era solo il piccolo inconveniente di dover per forza avere a che fare anche con persone che avrei preferito non incontrare fino alla fine dell'anno scolastico. Tipo Patterson, tanto per fare un nome a caso. Cominciammo l'anno male esattamente come avevamo concluso quello precedente.



Il primissimo giorno di scuola arrivai in anticipo, addirittura prima di Josh, talmente ero eccitata di rivedere finalmente tutti i miei amici insieme. I corridoi erano semi deserti: salutai le poche persone che conoscevo e poi andai a prendere posto nella zona caffetteria, che non era altro che un piccolo atrio prima del cortile, munito di un paio di macchinette del caffè e di qualche tavolo circondato da vecchie poltroncine. Gli studenti si contendevano, durante le ore buche o gli intervalli, quei pochi posti, ma essendo arrivata molto presto trovai i tavoli praticamente vuoti e, frequentando finalmente il terzo anno, non rischiavo neanche di sedermi per poi essere scacciata in malo modo da qualche galletto più grande che non voleva quelli del primo o del secondo lì intorno.

Cominciai a guardarmi intorno nell'attesa frenetica di una faccia amica ma i minuti passavano e non arrivava nessuno. Sbuffai guardando l'orologio: mancavano venticinque minuti all'inizio delle lezioni, forse avevo esagerato con la sveglia quella mattina. Mi rassegnai ad aspettare mettendomi più comoda sulla poltroncina e in quel momento fece la sua solita entrata pigra Matt Patterson.

Avevo ancora davanti agli occhi l'immagine di lui sul retro del Green Cafè con quell'espressione distratta e sincera appiccicata addosso. Forse per questo mi trovai stranamente ben disposta, mi dimenticai del ballo, del bacio, dei litigi, e decisi di salutarlo, quasi allegra.

"Ehi, ciao."

Matt, che in quel momento mi stava passando di fianco, alzò la testa e mi guardò, confuso per un attimo, come se non mi riconoscesse  cosa che mi era successa con altre persone, visto il cambiamento dei miei capelli. Notai che aveva capito chi ero quando, dopo qualche secondo e un lampo di comprensione nei suoi occhi, aprì la bocca per dire qualcosa, ma si fermò alzando le sopracciglia e squadrando il mio abbigliamento dall'alto al basso.

Evidentemente non apprezzava la mia tenuta del giorno: uno scamiciato azzurro acceso a maniche corte, dei sandali con una zeppa in sughero e i capelli, tagliati e tinti di castano scuro durante l'estate, legati in una codina alta che mi spuntava dalla testa come una piccola fontanella. Ah, e gli orecchini etnici a spirale. Colorati. Con le perline.

Quell'esame visivo mi stava innervosendo, così, ovviamente, parlai.

"Tutto bene? Hai capito chi sono o ti hanno lobotomizzato durante l'estate?"

Okay, non era il massimo come incipit, ma in mia difesa posso dire che la domanda fu pronunciata con un tono scherzoso per stemperare l'imbarazzo, non con l'acidità con cui ero solita rivolgermi a lui.

"Sì, Gray. Stavo solo cercando di capire se sembri più l'infermiera o la paziente di una casa di cura per malati psichiatrici. Dal vestito direi più l'infermiera, ma..."

"Bastava rispondere con un ciao, sai."

"Non volevo essere banale."

"Sia mai che mostri un po' di educazione, per l'amor del cielo."

La sua risposta mi aveva fatto tornare acida. Non c'era niente da fare: davvero, ero una persona socievole io, ma Matthew Patterson risvegliava i miei istinti omicidi.

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