IN UNA NOTTE DI PIOGGIA

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Rivisitazione di una leggenda metropolitana piemontese (e, plausibilmente, esistente in maniera più o meno simile in ogni angolo del mondo). Ricordo di un'età in cui quando raccontavi certe storie, magari per far colpo su una ragazza, ti sentivi grande...

Non era una bella serata per muoversi in macchina, la pioggia cadeva così copiosamente che i tergicristalli non riuscivano a rimuovere completamente l'acqua dal parabrezza costringendomi a procedere quasi a passo d'uomo. Tuttavia il mio vecchio amico Jari sarebbe partito per la Colombia di lì a pochi giorni, e quella era una delle ultime occasioni per guardare insieme alcuni episodi di X-Files e Lost. Sarebbe stata lunga, fino ad Ovada, anche se – chissà – forse più avanti il tempo sarebbe stato più clemente. Fuori città, appena lasciato il quartiere Cristo, la situazione era ancora peggiore: le pozzanghere e i riflessi dell'acqua occultavano la segnaletica stradale trasformando la strada in un nero tutt'uno con la campagna circostante. La tentazione di prendere in mano il cellulare e chiamare il compare per rimandare l'incontro era forte, ma – ad esser sinceri – la saggezza non era il primo sentimento a dare suggerimenti quella sera. Nemmeno un lampo che rischiarò la pianura con la sua spettrale luce bluastra mi fece recedere. Diedi un'occhiata ai miei preziosi dvd, per sentirmi rassicurato. Suvvia, i sentimenti di Desmond e Penny, le percezioni di Locke, i soprannomi di Sawyer e le sciagurate imprese dei Lone Gunmen e il freddo e scettico cinismo dell'agente Doggett, erano una ragione più che valida per affrontare una quarantina di chilometri di strada, per quanto simili al doppiaggio di Capo Horn. Anche superati i trent'anni (abbondantemente), qualche traccia residua della spensieratezza adolescenziale era pur sempre presente in me.
Poco dopo il passaggio a livello e il ponte sul Bormida, all'altezza del bivio per Castellazzo, notai sul ciglio della strada qualcosa che mi lasciò interdetto. Rallentai, il che significa che praticamente mi fermai, per controllare che l'immagine fosse reale e non uno scherzo della mia immaginazione o un singolare effetto ottico. Mi era capitato altre volte di vedere qualcuno camminare lungo la strada e che nell'approssimarsi era un semplice cartello stradale ingrassato da un cespuglio rampicante, ma questa volta non era un segnale, e nemmeno un guard-rail ritorto. Era proprio una giovane donna, stretta nella sua giacca, il volto sofferente per il freddo e l'acqua gelida che ormai le aveva inzuppato i vestiti. Stava camminando ingobbita lungo la statale, come se in quella posizione rannicchiata cercasse di recuperare parte del suo calore corporeo.
Fermarsi? Non fermarsi? E se mi fossi cacciato in guaio, di chissà quale tipo? Potevo però lasciare una donna sola, nella notte, sotto quel diluvio?
Presi la decisione in un istante.
Accostai, e misi le quattro frecce, fermandomi pochi metri dopo aver superato la ragazza. Quando le aprii la portiera, una raffica di vento mi spruzzò in faccia un'ondata di pioggia gelata.
Si sedette, e la luce fioca della plafoniera rischiarò il suo volto, sfigurato in una smorfia di brividi, solcato da rivoli che le scendevano copiosamente dai capelli. Le labbra le tremavano, così come le mani. Credo che pronunciò qualche parola, ma la sua voce era talmente fioca che non riuscii a comprendere cosa avesse detto.
"Non propriamente la serata migliore, per una passeggiata", le dissi, cercando di rompere il ghiaccio e di sdrammatizzare la situazione.
Abbozzò una sorta di sorriso, dietro quella maschera di freddo e pioggia. "Ho perso l'ultima corriera per Casalcermelli, e le linee telefoniche sono saltate e non riesco a chiamare mia madre per farmi venire a prendere".
Aveva ragione. Notai che anche il mio cellulare non aveva campo.
"La accompagno io, non si preoccupi. Tra l'altro facciamo la stessa strada. Io sto andando a Ovada".
"La ringrazio... sono una buona camminatrice ma questa sera proprio non so come sarei riuscita ad arrivare a casa".
La ragazza stava letteralmente gelando. Mi era capitato di essere sorpreso da temporali improvvisi, di non avere un riparo a disposizione o, più semplicemente, un banale ombrello. Una volta a Camogli, con un amico. L'umidità mi aveva penetrato a tal punto il corpo che credevo mi avessero piantato una scure nella schiena. Avevo le dita rattrappite, il respiro tagliato in due, le gambe mi parevano pezzi di legno.
Non sarebbe servito a molto perché i suoi vestiti erano impregnati come una spugna, ma le porsi l'impermeabile che avevo riposto sul sedile posteriore.
"Si copra con questo, sentirà meno freddo".
Una cosa del tutto inutile, indossare qualcosa di asciutto sopra degli abiti fradici, ma per ovvie ragioni non potevo invitarla a spogliarsi prima di infilarsi quella giacca in stile Tenente Colombo a cui ero particolarmente affezionato (l'avevo trovata ad un mercato, probabilmente i gestori della bancarella ce l'avevano sul groppone da vent'anni e non deve essergli sembrato vero trovare un babbeo a cui sbolognarla).
Ebbi l'impressione che oltre il parabrezza il diluvio fosse ora meno furente, anche se probabilmente era soltanto immaginazione. Per quanto il contesto, ovvero l'incontro con questa camminatrice solitaria lungo una strada deserta in una notte in cui persino le ranocchie avrebbero cercato un rifugio asciutto, fosse ammantato da una certa inquietudine mi resi conto che la presenza di quella ragazza per certi versi era rassicurante.
"Fabrizio", le dissi, togliendo la mano dal pomello del cambio e porgendogliela.
"Sabrina", mi rispose. Il suo sorriso era ora meno divorato dalla smorfia di sofferenza precedente.
"Sono passate due auto, prima di te. E nessuno si è fermato. Mi hanno vista, e hanno tirato dritto", aggiunse dopo qualche istante.
"A volte la gente è così scema da pensare che queste siano le classiche notti in cui fantasmi e streghe spuntano per adescare ignari passanti. E' evidente che appartenessero alla categoria di coloro che hanno guardato troppi film dell'orrore di serie Z", risposi.
"E se io fossi davvero una strega?", mi domandò.
"Ti direi che saresti poco credibile, perché le streghe non si separano mai dalla loro scopa di saggina. E non si muovono in corriera".
Rise. O meglio, sorrise. Non era una gran battuta, in effetti.
Ora che il tepore del riscaldamento al massimo le stava dando un certo sollievo, con una fugace occhiata notai che la ragazza aveva tutt'altro che l'aspetto di una strega. Aveva capelli lunghi e castani, gli occhi scuri e ora che stava rilassando i muscoli del viso constatai che aveva lineamenti molto dolci e definiti. Pensai anche che erano troppo pochi i chilometri a disposizione per inventare un buon modo per invitarla a pranzo o a cena, però sondai lo stesso il terreno.
Il momento della frase idiota.
"Il tuo ragazzo è al lavoro, visto che non ha potuto accompagnarti a casa?", domandai. La condanna di ogni esigua ed esile speranza che avrei potuto covare.
"Il mio ragazzo mi ha lasciata tre anni fa. Da allora non ho più incontrato nessuno, subito dopo la rottura non me la sentivo perché ero ancora innamorata di lui, e dopo perché non ho incontrato nessuna persona che mi interessasse davvero".
"Credo che per una ragazza carina come te la carenza di corteggiatori non sia un problema", fu il mio demenziale commento. Probabilmente ero giunto alla seconda frase idiota consecutiva.
"Il problema non è la mancanza di corteggiatori, è la mancanza di corteggiatori validi", replicò abbozzando una risata.
Fin lì mi ero dimostrato degno membro potenziale della compagine dei corteggiatori non validi.
Mi parve un osso duro, e lasciai perdere ogni velleità. Pensai anche al fatto che di fidanzate squinternate ne avevo già avute fin troppe, e che una che affronta a piedi la strada da Alessandria a Casalcermelli sotto un diluvio, in una notte resa ancora più tetra dalla luna nuova, sarebbe stato troppo persino per uno totalmente privo di discernimento nella propria vita sentimentale come me.
Ma ormai eravamo alle porte del suo paese, e le nostre strade si sarebbero separate. Per sempre, probabilmente.
"Lasciami pure al secondo semaforo, casa mia è poco più in là".
"Non scherzare, sta ancora piovendo molto forte".
"Allora svolta a destra...", continuò sorridendo.
Giungemmo di fronte ad una classica casa di campagna, con l'intonaco vagamente sbrecciato, uno spartano lampioncino in cortile ed una cancellata bisognosa di una sistemata a delimitare la proprietà.
"Non so davvero come ringraziarti", mi disse.
Era la mia ultima occasione. Era il momento della frase ad effetto. Quella che colpisce la persona a cui la rivolgi.
"Non mi devi ringraziare. E' stato un piacere. Ora vai a casa, asciugati e mettiti al caldo".
Questa è stata la mia frase ad effetto. Non un "ti potrei invitare una sera al cinema?", nemmeno uno "spero di rincontrarti, un giorno o l'altro".
Asciugati e mettiti al caldo, tutto qui.
Ci salutammo, e scese dall'auto. Rimasi ad attendere che varcasse la soglia, come se quel cortiletto scarno potesse contenere chissà quali insidie. Probabilmente speravo che nonostante la mia palese imbecillità, tornasse a dirmi qualcosa. Non tornò indietro. Prima di entrare in casa si voltò, mi fece un cenno con la mano, poi vidi la porta richiudersi e la luce fioca dell'ingresso accendersi e filtrare attraverso i vetri smerigliati dell'uscio.
Un lampo illuminò a giorno le case, i tetti, la stradicciola. Il boato fu immediato, spaventoso, terrificante. Mi fece sussultare.
Poco dopo ripresi il mio cammino. Appena dopo il paese, nel fascio di luce dei miei fari vidi un'ombra indefinibile sulla strada. Inchiodai, fermandomi a pochi centimetri da quella cosa gigantesca. Era un albero, venuto giù durante la tempesta. Guardai meglio e vidi che il tronco era completamente sbrecciato ad un paio di metri dal suolo. Non poteva che essere stato un lampo, forse lo stesso impressionante fulmine caduto pochi minuti prima.
Il mio primo pensiero fu "e ora come ci arrivo, a Ovada?". Un istante dopo compresi che per un fortunato gioco di coincidenze, non ero rimasto schiacciato lì sotto. Tre minuti, forse. Lo stesso tempo che avevo "perso" nell'accompagnare a casa quella ragazza.
Segnalai telefonicamente al pronto intervento l'accaduto, e nel frattempo alcuni abitanti delle case circostanti iniziarono a confluire. Ci avrebbero pensato loro a segnalare agli altri automobilisti il pericolo in qualche maniera.
Dopo aver fatto un impietoso giro dell'oca, giunsi finalmente da Jari, a cui raccontai del mio turbolento viaggio: "sarebbe una buona sceneggiatura per un episodio di X-Files", commentò.
"La ragazza come figura che in realtà si trovava in quel momento proprio aspettando te. Forse hai incontrato il tuo Angelo Custode, che ti ha protetto e salvato da un brutto incidente".
A dire il vero non ho mai dato molto credito alle teorie sul paranormale. Avevo sentito racconti che ondeggiavano tra la leggenda metropolitana e le storielle che si raccontano nei bar di paese, quelle SOMS in cui l'assurdità delle narrazioni è direttamente proporzionale al barbera versato nei bicchieri. Mi era capitato in gioventù di partecipare a sedute spiritiche ben presto soppiantate dal più remunerativo gioco della bottiglia. Una volta avevo visto strane luci in cielo che non ero stato in grado di ricollegare a qualche velivolo o fenomeno atmosferico a me noto. Più che al mio Angelo Custode, pensai ad una fortunata coincidenza. Una botta di culo, in sostanza. E poi, chi mi assicurava che quell'albero mi sarebbe effettivamente caduto in testa?
Notai un'altra cosa: il mio prezioso impermeabile alla Peter Falk era rimasto sulle spalle di Sabrina. Forse era questo l'autentico segno del destino. L'indomani sarei potuto andare a riprenderlo, e magari instaurare un dialogo più proficuo e meno idiota con quella ragazza.
Lavorando a Capriata d'Orba, ogni giorno passavo da Casalcermelli. La cosa sarebbe stata ancora più semplice.
E così, il giorno dopo, uscii di casa con una mezz'ora d'anticipo per recarmi al lavoro. Iniziavo alle 14 e l'unica mia perplessità era che avrei disturbato proprio all'ora di pranzo. Anche se nei paesi di solito si mangia presto e magari sarei giunto in tempo per un caffé, evitandomi inoltre il supplizio dell'agghiacciante bevanda nerastra che servono al bar di Predosa.
Giunsi di fronte alla casa della ragazza, constatando che non v'era un campanello o qualcosa di simile ad un citofono. Il cancelletto metallico sul cortile era semiaperto così entrai, sincerandomi che non vi fosse in agguato qualche feroce cane da guardia. Bussai alla porta, e mi apri una signora sulla cinquantina.
"Desidera?"
"Buongiorno, signora. E mi scusi per il disturbo. Ieri sera ho dato un passaggio a Sabrina, che credo sia sua figlia, e le ho lasciato il mio impermeabile. Sono venuto a riprenderlo e a salutarla, sempre che sia in casa".
Il volto della donna divenne scuro.
"Come ha detto di chiamarsi?"
"Fabrizio..."
"E così, Fabrizio, lei ieri sera avrebbe accompagnato in questa casa mia figlia?"
Il tono di voce, e lo sguardo, non lasciavano presagire niente di buono. Non mi pareva di aver aggredito la ragazza, o di averla violentata, o di aver commesso chissà quale crimine. Era indubbiamente in buona salute quando l'ho lasciata e al massimo sarebbe potuta essere a letto con un febbrone da cavallo, del quale non sarei stato comunque responsabile.
"Sì, signora. A meno che io non abbia sbagliato casa, e non mi pare, io ho accompagnato qui sua figlia ieri sera, intorno alle nove". Mi resi conto di avere la voce quasi tremolante. Quella situazione non mi piaceva affatto e mi sentivo tremendamente a disagio.
"Per lo scherzo che mi sta facendo potrei prenderla a schiaffi, o chiamare la polizia. Voglio che lei ne sia consapevole. Sarebbe facile per me farlo, però voglio che si renda conto di persona di quello che mi sta facendo. Ha tempo per una passeggiata? Le rubo soltanto cinque minuti".
Non osai contraddirla. La tentazione era quella di fuggire a gambe levate, risalire in macchina e sparire in fretta e furia, abbandonando al suo destino il mio amato impermeabile. Ma una singolare, inspiegabile curiosità mi indusse a seguire la donna.
Non mi rivolse la parola in tutto il breve tragitto.
Quando compresi dove eravamo diretti, sentii le gambe cedere. Lo scricchiolio dei cardini arrugginiti del cancello del cimitero mi gelò il sangue.
"Signora, io...", bofonchiai.
"Venga, venga. Mia figlia, Sabrina, è qui. Ma non credo potrà restituirle il suo impermeabile".
"Che cosa è successo?", domandai con un filo di voce.
"Un incidente stradale, tre anni fa. Era in macchina con il suo ragazzo, stavano andando in vacanza. Andarono a sbattere contro un albero che era caduto poco prima del loro passaggio. Furono sbalzati fuori dall'abitacolo, morendo sul colpo. I soccorritori e i medici hanno detto che non hanno sofferto, e questa è l'unica consolazione che mi è rimasta. Io le ho detto quello che è accaduto, lei ora mi saprebbe spiegare come ha fatto ad accompagnare mia figlia a casa, visto che questa ora è la sua dimora?". La sua voce si spezzò in un misto tra rabbia e pianto.
"Mi dispiace... mi dispiace veramente... io non so proprio spiegarle. Quello che le ho detto è la verità, non oserei mai fare uno scherzo così crudele a qualcuno".
Non mi guardava più. I suoi occhi erano spalancati, rivolti altrove.
"Mio Dio!", bisbigliò.
Seguii il suo sguardo, correva verso una fredda lapide di marmo grigio.
"SABRINA
1984 – 2008"
Il cognome non si leggeva. Era coperto dal mio impermeabile, appoggiato alla sua tomba.

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