Capitolo V: Take your time.

1K 47 7
                                    

Until the end of my days

Capitolo V:

TAKE YOUR TIME

"I don't wanna steal your freedom, I don't wanna change your mind, I don't wanna make you love me, I just wanna take your time."

Il sole era quasi del tutto tramontato, appena Mickey era uscito dal bagno dopo una lunga doccia, già vestito e pettinato, aveva trovato Ian profondamente addormentato nel letto, con i capelli rossi scompigliati sul cuscino e ancora umidi.
Stupido cazzone, glielo diceva sempre che avrebbe dovuto asciugarli che altrimenti si ammalava ...
S'avvicinò a lui, nervoso, mentre lo ammirava nella sua stanca bellezza, gli diede un bacio sulla tempia, cercando di non svegliarlo ... avrebbe preferito che non sapesse che l'aveva baciato.
Iniziò a scuoterlo per la spalla, con tutta la dolcezza che Mickey Milkovich potesse avere dentro, sembrava così goffo mentre lo faceva che in confronto un elefante sarebbe stato molto più delicato, ma – per la maggior parte delle volte – ad Ian andava bene così.
«Ian!» lo chiamò «Dai, svegliati, testa di cazzo, ti porto a cena!»
Ian non si mosse, restando appallottolato nel letto, in una posizione che non doveva essere per niente comoda, così una brutta sensazione si insediò in Mickey, che iniziò a scuoterlo e ad urlare allarmato.
No, non poteva perderlo, cazzo, aveva promesso ai Gallagher che l'avrebbe riportato nel South Side intero. Non poteva perderlo, ne sarebbe morto lui stesso.
«Ian, svegliati!» urlò, tirandogli un paio di leggeri ceffoni sul volto «Cazzo, Ian! Svegliati, Ian! Svegliati!»
Era letteralmente preda del panico, i suoi occhi vagavano da ogni parte della stanza, le sue mani tremavano e aveva tutti i sensi all'erta.
«Che cazzo vuoi?» era Ian. E si era svegliato, con un'espressione seccata sul viso d'angelo , la voce impastata dal sonno e il tono notevolmente contrariato.
Ma non poteva lasciarlo dormire?
«Porca puttana, Ian!» si sciolse tra le braccia del ragazzo come una checca spaventata, seppellendo il volto nella sua spalla, mentre Ian era ancora ben intenzionato a prenderlo a pugni per aver interrotto il suo sonno tranquillo «Mi hai fatto venire un cazzo di attacco di
cuore, lo sai?»
Ian lo comprese, sorridendo e stringendolo, perché – maledizione! – Mickey Milkovich tremava tra le sue braccia. Tremava davvero.
In realtà Ian avrebbe voluto solo tirargli un calcio per averlo svegliato, ma si ricordò delle notte insonni che passava al suo fianco, temendo di vederlo morire nel sonno.
Aveva capito quanto quel ragazzo violento del South Side, con cui aveva fatto a pugni e poi scopato centinaia di volte, tenesse a lui, di come si preoccupava, di come diventava così fragile mentre piangeva silenziosamente durante la notte, convinto che lui non lo sentisse.
«Pisciasotto ...» aveva mormorato, sorridendo beffardo, mentre gli tirava uno scherzoso pugno sulla spalla e gli posava un bacio sul collo.
«'Fanculo!» lo scrollò, alzandosi dal letto «Vestiti bene, andiamo a mangiare fuori!»
«Che lusso!» commentò, stiracchiandosi e tirando uno sbadiglio.
«Muoviti, prima che cambi idea!»

«Hai intenzione di venire a cena vestito così?» domandò Ian a Mickey, guardando di traverso la sua camicia con su stampate tantissime foglie di marijuana.
«Stavo per farti la stessa domanda, sembri un frocetto al proprio matrimonio.»
«Tecnicamente è ciò che siamo.»
«Solo tecnicamente, però.» rise Mickey, baciandogli la testa e disfacendo i suoi capelli ordinati «Ora andiamo, testa di cazzo!»
«Dovrebbe essere il dominatore a dar ordini, Mick.» per tutta risposta il Rosso ricevette un simpaticissimo dito medio dal fidanzato, che camminava di fronte a lui, fiero nella sua camicia verde.
Rise di gusto, conosceva il suo Mick e sicuramente non si aspettava una reazione differente da quella, sapeva quanto detestava che gli ribadisse quel concetto o che lo chiamasse "Sottomesso", ma puntualmente lui lo faceva, sapendo che l'avrebbe fatto incazzare a dismisura.
E tutto per un'unica volta che si erano dilettati nel BDSM ...
Dopo mesi, Mickey ci aveva fatto l'abitudine e aveva imparato ad ignorarlo.
Ed era anche di quello che si era innamorato Ian, e in quei suoi ultimi mesi di vita non voleva altro che la semplicità di quei gesti. Non gli importava dei grandi viaggi, delle preoccupazioni, della stanchezza ... voleva solo vivere la quotidianità.
Aveva accettato l'idea di morire, ormai, era solo devastato al pensiero di dover lasciare la sua famiglia e Mickey, da solo nel suo dolore. Aveva troppa paura di ritrovarselo al suo fianco troppo presto, in chissà quale mondo.
Erano già passati dieci minuti da quando erano entrati in macchina e Mickey aveva iniziato a guidare per il ristorante dove aveva prenotato, aveva detto che ci sarebbero voluti al massimo cinque minuti, ma a quanto pare stavano girando a vuoto da un bel pezzo e Mickey si faceva sempre più nervoso, masticava la sua gomma alla menta con irruenza, come se volesse uccidere qualcosa tra i suoi denti, sbruffava ogni due secondi mentre si guardava intorno cercando di capire dove fossero.
«Mick, almeno sai dove si trova di preciso questo ristorante?» gli domandò Ian, posizionandosi meglio sul sedile e aprendo il finestrino.
«Cazzo, sì che lo so, mi sono fatto dare le indicazioni dal tizio con cui ho parlato per la prenotazione.»
«Possiamo chiedere informazioni a qualcuno.»
«No, cazzo, sono sicuro che siamo vicini, non era molto lontano dall'albergo e ho seguito le indicazioni.» sbottò Mickey, battendo le mani sul volante.
«Ehm, Mick ...» farfugliò Ian, soffocando una risatina affannata «Non sarà mica quello il ristorante?» indicò un'elegante insegna illuminata e vide il volto di Mickey sbiancarsi, rassegnato, strano.
«Cazzo, sì.» mormorò, guardandolo stranito «Da dove è sbucato?»
«Credo che ci abbiamo girato intorno per tutto il tempo.»
«'Fanculo!» borbottò, facendo un parcheggio azzardato e scendendo velocemente dall'auto, recuperando la bombola d'ossigeno di Ian, che rideva.
«Devo portarmi ovunque questo coso?» aveva domandato, tirando un'occhiata storta a quell'aggeggio.
Almeno per quella sera voleva passarla in tutta tranquillità con Mickey, senza l'ansia che gli veniva ogni volta che incrociava l'oggetto che gli ricordava che da lì a poco sarebbe morto.
«Sì, se non vuoi morire di asfissia.» aveva borbottato, trascinandosi dietro la bombola mentre percorrevano la strada per arrivare al ristorante.
Mickey Milkovich con una camicia con foglie di Marijuana e una bombola d'ossigeno rientrava sicuramente nelle cose più strane che Ian avesse visto.
Azzardò a prendergli la mano mentre camminavano, lo aveva guardato con sguardo supplicante, come a pregarlo di non fare come al suo solito e toglierla via bruscamente ... ma fu ciò che fece, colto alla sprovvista e quasi spaventato: Mickey odiava il contatto fisico quando si trovavano in pubblico.
Eppure lo stava portando in un ristorante gremito di persone, ci stavano andando insieme, vestiti come due attori provenienti da un film comico. Qualcosa doveva significare.
Non appena entrarono Mickey fu come colpito da una paralisi quando vide la maggior parte dei tavoli pieni, Ian che già si era incamminato per andare dal cameriere che li avrebbe condotti al loro tavolo si voltò, scrutandolo preoccupato.
«Mick, stai bene?»
«Sì, sì.» farfugliò, scuotendo la testa per svegliarsi dal trance in cui era caduto «Tutto okay. Andiamo ... andiamo dal cameriere.»
Non appena furono accompagnati al tavolo, l'espressione di Mickey era paragonabile a quella di una bambola di porcellana, era rigido, il volto abbronzato era pallido e si scrutava con fare sospetto intorno.
«La smetti?» fece Ian, accigliandosi mentre aspettavano che qualcuno portasse loro l'antipasto che avevano ordinato.
«Di fare cosa?»
«Di comportarti come se dovesse bucare qualcuno da sotto un tavolo per ucciderci.»
Ian lo sapeva, ti abitui a tenere tutti sensi all'erta quando cresci in un quartiere come il South Side di Chicago, ma quel comportamento di Mickey gli sembrava esagerato.
«Okay, okay.» si sistemò meglio sulla sedia, poggiando i gomiti sul tavolo «Ma sicuramente qui ci sarà qualche testa di cazzo pronta a fare commenti e non so se stasera posso tollerarlo.» sussurrò, in modo che solo Ian potesse sentirlo.
«Mick, ognuno si sta facendo i fatti propri. Nessuno ci sta guardando, nessuno sta facendo commenti. Non iniziare con le tue paranoie, ti prego.»
«Non sono paranoie.»
«Va bene, possiamo rilassarci e parlare di qualcosa di allegro?»
«Cazzo, sì.» fece Mickey, grattandosi la guancia e cercando di comportarsi normalmente «Godiamoci questa penultima notte in questo paradiso.»
«A proposito.» disse Ian, mentre mangiava un grissino e rideva «Stanotte parlavi nel sonno.»
«Io non parlo nel sonno.»
«Ti dico di sì, farfugliavi qualcosa su Mago Merlino.»
E allora Mickey ricordò dell'imbarazzante sogno che aveva fatto quella notte: lui e Mandy, da piccoli, che ridevano e saltellavano elettrizzati mentre giocavano con il vecchio mago sulla spiaggia.
Oh, ci avrebbe portato Mandy un giorno, ad Honolulu ...
«Cazzo!» aveva inizialmente esclamato, imbarazzato e rosso in volto, ma si riprese subito, tentando una risata «Oh, bella questa, Mago Merlino!»
«Non mi dirai mai cosa hai sognato, vero?»
«Non ho sognato un bel niente!» si irrigidì, diventando rosso fino alla punta delle orecchie. «Piuttosto guarda, sta arrivando quel cazzone del cameriere con il nostro cibo.»

Until the end of my days.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora