06: Note silenti (parte II)

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    «IAN, aspetta.»

    No. L'Archeologo scosse la testa e girò i tacchi, avviandosi verso l'uscita. Non avrebbe atteso di vederlo autodistruggersi. Non sarebbe rimasto inerme a guardare. Sarebbe stato... troppo doloroso. Perché doveva soffrire per un uomo tanto sciocco? Perché? Lui non lo meritava. Così come YUNE non meritava quel tormento continuo. Si sentiva così maledettamente inutile. Non c'era modo che potesse scacciare le voci. Non poteva neanche proteggerlo dal Sistema. Non aveva alcun potere.

    Il Programmatore si alzò di scatto dalla sedia e lo raggiunse. Lo tirò per la manica della maglietta. Nessun contatto. Già. Non che se lo aspettasse. O forse sì? Quanto potevano essere basse le sue aspettative? Eppure bastò quel semplice gesto per bloccarlo. IAN smise di camminare. Serrò la mascella e tenne gli occhi puntati sulla porta d'ingresso. Voleva disperatamente raggiungerla, ma allo stesso tempo il suo corpo si rifiutava. Più desiderava sottrarsi, più la salvezza sembrava lontana e irraggiungibile.

    «Lasciami andare» si morse il labbro inferiore quando si accorse che la sua era un'implorazione: poteva esserci qualcosa di più umiliante?

    «Non posso. Ho bisogno del tuo aiuto» gli rispose l'altro. «Ti ho detto che delle parole non appartengono al linguaggio dei Fondatori. Non sarei mai capace di decifrarlo da solo. Tu però sei uno Storico... scusami, un Archeologo. So che sei in contatto con dei Glottologi: forse qualcuno di loro potrebbe...»

    YUNE non riuscì a finire il discorso. Un lamento gli sfuggì. Lasciò la presa sulla stoffa e si portò le mani alle tempie. IAN sgranò gli occhi. L'istinto agì al posto suo: lo afferrò per le braccia, prima che le sue gambe cedessero. Lo sorresse, mentre lui stringeva convulsamente la testa. Sapeva bene cosa stava accadendo. Le voci erano tornate, più forti di prima. C'erano momenti in cui erano quiete, docili come gli abitanti della Cupola. Per un po' lo lasciavano in pace, donandogli una dolce illusione di tranquillità. Poi, all'improvviso, esplodevano. Ultimamente, gli capitava più del solito. Almeno, era ciò che aveva notato IAN. Forse si sbagliava.

    O forse no.

    Lo aiutò a tornare alla sedia. YUNE ci si sedette a tentoni e poi si piegò su se stesso. L'Archeologo si sentì sprofondare. Ancora una volta, era nient'altro che uno spettatore. Stare a guardare era troppo doloroso. Strinse i pugni e digrignò i denti, avviandosi verso il tavolo. Scostò oggetti di ogni tipo, fino a trovare le siringhe automatiche e un'ampolla di droga. Non avrebbe voluto diventare complice di quella dipendenza, ma come avrebbe potuto lasciarlo in un simile stato?

    Conosceva bene gli effetti di quel tormento: il Programmatore glieli aveva descritti con minuzia di particolari. Prima d'iniziare a drogarsi, trascorreva archi interi in quelle condizioni. A volte, arrivava a diventare un tutt'uno con le voci. Ripeteva le concatenazioni, un linguaggio che agli occhi delle macchine si traduceva in pura follia. Lui però, non era affatto pazzo. Aveva semplicemente un disperato bisogno di aiuto.

    IAN preparò l'iniezione con cura. Si premunì del disinfettante, riempì l'inniettore e stette attento a eliminare qualsiasi traccia di aria. Poi si avvicinò all'uomo. Gli prese un polso e lo costrinse a protendere il braccio. Da solo, in quel momento, YUNE non sarebbe riuscito a farlo. L'Archeologo si rese conto che le sue mani tremavano. Stava forzando la propria coscienza, ma che alternative aveva? D'altronde, non era la prima volta che si abbassava a tanto. E tutto solo per lui. Pulì l'area con il disinfettante, poi praticò la puntura. Il Programmatore digrignò i denti.

    «Scusami» sussurrò IAN.

    Sapeva di non essere stato molto delicato. Le sue mani erano incerte e, anche se aveva già avuto esperienze di quel genere, non poteva competere con un androide ospedaliero. Inoltre, non era solo quello il motivo delle sue scuse. Stava prendendo parte alla sua dipendenza, quando solo poche pause prima aveva deciso di andarsene. Desiderava essere perdonato per la propria ipocrisia. Per la debolezza che non riusciva a soffocare.

Alius - il DitticoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora