Avrei desiderato arduamente che mia madre avesse avuto la possibilità di conoscere Lino.
Le sarebbe piaciuto, ne ero certa. Avrebbero condiviso l'amore per il pattinaggio, e probabilmente anche lei avrebbe trovato buffo il suo modo tanto singolare di piegare il collo su un lato.
Tuttavia, quasi un anno prima avevo deciso di tenerle nascosta la mia amicizia con il ragazzino, impaurita dall'eventualità che, se avesse saputo della sua passione per il pattinaggio, le sue condizioni di salute già critiche si sarebbero aggravate, senza dimenticare l'alta probabilità di ricevere un secco e solito NO alla continuazione dell'amicizia con Lino.
Le mie convinzioni non erano infondate. In effetti, dal momento in cui mi ebbe scoperto alla pista, coi pattini blu a pochi centimetri da me, mi proibì in modo compulsivo di calzarli.
Non capivo, o forse era doloroso ammettere che, dopo una carriera finita male, la mamma volesse tenermi alla larga dal pericolo.
Aveva solo intenzione di proteggermi, ma da tredicenne ribelle quale ero diventata, era difficile, per me, comprenderlo.
Anche nei rari momenti in cui mia madre aveva condiviso con me ricordi del suo amato sport, lo aveva fatto in modo frammentario. Quasi come me con Lino e la pista, temeva forse che, parlandone, la magia del ricordo di quei momenti tanto emozionanti, potesse venir meno, forse rompersi del tutto. Allora le nostre memorie diventavano come ampolle tanto fragili ed allo stesso tempo preziose, che preferivamo non affidare ad alcuno.
Le nostre emozioni erano tesori da custodire gelosamente dentro di noi.
Per il resto, chiacchieravamo quasi ogni sera, durante la cena.
Vidi mia madre mettere sotto i denti qualcosa e rimettersi in forze. Io avevo smesso di considerarla un nemico, e lei, dal canto suo, stava ricominciando a vivere, come se finalmente avesse ritrovato una ragione per farlo. Non sopravviveva più, e questo era ciò che contava.
Le parlavo, talvolta, di Corinne, Jaqueline, Guglielmo e Sofia, e spostando la sedia rumorosamente, scattavo in piedi e prendevo a mimare gli smielati atteggiamenti di Bianca e Mariano. Mia madre rideva di gusto, quasi strozzandosi col cibo. A quel punto, allora, continuavo ad inscenare le loro litigate e gli abbracci, le effusioni e le frasi copiate da chissà quale libro, che i due continuavano a ripetersi.
Avevo iniziato a guardare la mamma con occhi diversi, da quel fatidico giorno nevoso, quando per la prima volta avevo sfidato le sue raccomandazioni e mi ero intrufolata in soffitta, a frugare tra i suoi ricordi di un'epoca d'oro, come le targhe e le innumerevoli medaglie che giacevano accatastate tra la polvere.
Avevo smesso di considerare mia madre debole e malata, ed ogni qualvolta mi trovavo ad osservarla, rivedevo in lei la giovane atleta delle fotografie sui giornali, la giovane Marta dai lunghi capelli biondi che faceva boccacce e smorfie ai fotografi, con le mani al cielo ed otto ruote sotto i suoi piedi.
Intanto, la neve cominciava a sciogliersi. Ripulivo il vialetto, sgombrandolo dallo stato di ghiaccio che ormai andava tramutandosi in fango, e pensavo.
L'anno precedente, me ne ero stata sotto le coperte a fissare il muro. Non un'emozione forte, un sorriso, dinanzi a tutta questa neve. Solo tanta rabbia. Vivevo la chiusura della scuola come un'ingiustizia profonda. Era l'unico luogo in cui potevo sentirmi, per qualche ora, una ragazza comune, e per via delle condizioni meteorologiche avverse, anche questi unici attimi di normalità mi venivano portati via.
Adesso, invece, spalavo la neve ed intonavo un motivetto, e di tanto in tanto mi divertivo a scivolare con le scarpe sul ghiaccio, improvvisando una gara immaginaria di pattinaggio. Il vialetto di casa diventava magicamente il rettilineo della pista, e nel candore del bosco innevato, sfoggiavo le tecniche che avevo appreso d'estate con Lino.
Poi, mia madre si affacciava alla finestra e mi intimava, in modo compulsivo, di smetterla.
O, più semplicemente, il telefono squillava.
Allora frenavo in modo alquanto maldestro e, infischiandomene del ghiaccio incastrato sotto le suole, correvo dentro casa ed afferravo la cornetta con vigore. Chiacchieravo per ore con le mie compagne di classe, incurante delle pozzanghere createsi sotto i miei piedi.
Ero diventata ormai una di loro, ed il resto non aveva più importanza.
Ero una ragazza comune.
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Il volo dell'angelo
Teen Fiction"I miei rilucenti capelli biondi che fino ad allora avevo considerato insignificanti, sfrecciavano nel vento, come una bandiera che con fare trionfante illustra al popolo la sua magnificenza. Il caldo sole di aprile picchiava sulle nostre teste am...