XIX - GELATO

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Leonardo.
Io mi chiamo Leonardo.
Io ho assunto qualcosa di indistinguibile, senza sapore, ma micidiale.
Non so che giorno sia, se sia notte o meno, se io stia sognando.
Attorno a me il vuoto, sottile, impercettibile, tremendamente spaventoso.
Risate di sottofondo si fanno sempre più intense, i volti da cui provengono sono deformati e mi fanno ridere.
C'è un enorme buco nero a terra: vorrei immettermici, sprofondarci.
Adesso una strana musica si può udire: sembra classica, anzi no... è sicuramente rap.
Dei tizi ballano coi loro corpi molli: hanno la consistenza del budino e man mano si sciolgono sul pavimento, sparendo poco dopo inghiottiti dal buco nero.
Tento di raggiungerli, ma una luce abbagliante mi fa sfregare gli occhi: ora motivi geometrici mi ipnotizzano fino a farmi crollare in una specie di coma.
Vengo scosso dall'ennesima figura informe, ma questa sembra avere una consistenza più o meno umana.
È fatta di carne, questo è poco, ma sicuro.
I suoi vocaboli sono indecifrabili ed io cerco di articolare un discorso, ma dalla mia bocca esce solo saliva a fiumi.
Sento la mascella sempre meno compatta, tanto che dopo la sento sciogliersi e quindi disgiungersi dalla mia faccia storpia e irriconoscibile.
Mi sento in una dimensione ultraterrena, come se l'ordinario non fosse più umanamente concepibile.
Finalmente riesco a mettermi sulle mie gambe e tento un passo che, a fatica, compio.

***
«Che cazzo hai combinato?» urla mio padre con gli occhi fuori dalle orbita: sono passate all'incirca sette ore e quell'effetto assurdo è terminato, ho ripreso coscienza e man mano sento gli arti formarsi di nuovo.
Scuoto la testa:«Lasciami stare.»
«È una novità questa? Ti droghi anche da adesso?»
Il suo sguardo è carico d'odio, so che vorrebbe uccidermi seduta stante.
«Non l'ho deciso io- sussurro e mi alzo dal letto scocciato- lo hanno messo dentro al bicchiere.»
Sono stanco, stanco e infelice.
Quello che è successo ieri sera è stato grave, ne
sono più che mai consapevole, ma di mia spontanea volontà non penso lo avrei mai fatto.
«Ci mancava solo questa.» ripete mio padre come un mantra, lamentandosi in continuazione pensando che io lo stia ascoltando.
Ne ho abbastanza anche delle sue rotture di coglioni: voglio solo essere lasciato in pace per tutto il giorno.
Non ricordo assolutamente niente di quell'esperienza e non so nemmeno se qualcuno sia venuto da me chiedendomi qualcosa.
«Vorrei che tu parlassi con uno psicologo, Leonardo.»
Si siede affianco a me ed io vorrei solo buttarlo giù dal letto riempiendolo di pugni: psicologo?
Ma è imbecille?
«Porca puttana, lasciami stare.» urlo spingendolo via da là.
Bofonchia qualcosa, ma appena sto per arrabbiarmi come una furia esce sbattendo la porta: giusto in tempo, perché ricevo una chiamata da quelli del bar che vogliono sapere se stasera sono disponibile.
«Certo.» rispondo e immediatamente scrivo un messaggio a Camilla: la invito a mangiare fuori prima che io debba lavorare.
La sua voce è calda come al solito e mi manda una scarica di vitalità, in un momento in cui ne ho un bisogno disperato.
«Questa sera sono con mio cugino.» proferisce e mi crolla tutto addosso: sono uno stupido a pensare che lei abbia tempo per me.
La saluto e mi caccio nuovamente sotto le coperte, col mal di testa e fare furente.
Sono una bestia feroce e avrei solo bisogno di qualcuno che mi dia una calmata, di me stesso non mi fido più di tanto, ora.

***
Camilla.
Non mi ha mai proposto di uscire fuori a mangiare, nemmeno quando stavamo insieme.
Lascio cadere il mio corpo sul divano e poco dopo mi raggiunge Alessandro con una ciambella in mano: «Vuoi?»
«No, grazie.» sorrido facendo penzolare la testa all'ingiù con le gambe rivolte alla parete.
«Mi ha chiamato Anna. Non so se te la ricordi.» proferisce lui camminando avanti e indietro per la stanza, cosa che mi fa venire il mal di mare.
«Mh.. rinfrescami la memoria.»
Alessandro ride nervosamente:«La avevo conosciuta alle superiori, ci siamo frequentati per qualche mese. Adesso sa del mio ritorno qui e mi ha chiesto se potessimo uscire siccome è da tempo che non ci si vede.»
«Bhé, mi fa piacere.- dico rilassata, dopo essermi messa in una posizione più o meno normale- quando vi vedete?»
«Stasera, mi aveva proposto. Ma mi spiace rinunciare a stare con te.»
Mi alzo in piedi e gli vado incontro:«Scherzi?»
«No, davvero.- si passa una mano tra i capelli e manifesta un'espressione dolce, so che è sincero quando fa così- sono venuto qui per stare con te e la tua famiglia.»
«Per una sera non succede niente. Abbiamo ancora qualche giorno, ci rifaremo.» lo abbraccio forte e lui mi stringe.
«Sei sicura?»
«Se non la smetti di chiederlo ti appendo al muro.» sogghigno ed Alessandro fa lo stesso, tirando fuori il labbro inferiore e facendomi intenerire.
Salgo su in stanza al fine di darmi una sistemata.
«Pronto? A che ora questa sera?»
«Perché?»
«Perché ho voglia di vederti.» sussurro e me ne vergogno immediatamente.
«Tuo cugino non poteva?»
«Fai poche storie- sospiro infastidita- dimmi a che ora.»
«Otto e trenta sotto casa mia. Ti voglio puntuale, carina.»
«Io ti voglio gentile questa sera.»
«Sarà fatto, ma tu sbrigati.»
Sorrido, come se potesse vedermi e riattacco: ho bisogno di un bagno, assolutamente, e di farmi bella per lui.

***

Leonardo.
Mi lancio sotto la doccia, mi fisso il pene e mi tocco i testicoli: sono fottutamente pieni.
Provvedo subito a svuotarmeli con una sega rapida, e dopo essermi strofinato per bene lo shampoo sui capelli, resto qualche minuto a riflettere: sono in ansia per questa sera e ho paura di starci male ancora.
So già che sarò fuori controllo quando incontrerò la sua bellezza delicata e pura, temendo di rovinarla solo scrutandola per poco.
Esco da là sotto e mi dirigo di fronte all'armadio alla ricerca di qualcosa da mettermi: vorrei tanto piacerle per quello che sono.
Lascio che i capelli mi cadano morbidi sulla fronte e quasi mi arrivano negli occhi da quanto si sono allungati: occorre tagliarli al più presto.
Indosso una felpa larga e dei jeans strappati: non ho soldi per portarla fuori a mangiare in un posto di classe.
So che può permettersi di meglio.
Scendo le scale e noto un pacchetto di sigarette sul tavolo: sono di mio padre.
Gliene sfilo una e mi apposto sui gradini sotto al portone, in attesa della sua venuta.
Il cuore batte forte e non so come comportarmi.
Mi accendo la sigaretta sperando che un po' di angoscia mi abbandoni, ma rimango sbigottito una volta compreso che non se ne va, è sempre lì fissa, una costante.
I minuti passano più lenti delle giornate piovose di domenica: ma dove diavolo si è cacciata?
Sto per alzarmi, ma dei passi mi fanno voltare di scatto: eccola.
Il mio fiato è mozzato da quanto è bella, su questo non ho mai avuto dubbi.
«Scusami il ritardo.» proferisce stampandomi un bacio sulla guancia.
«Non fa niente.- sorrido- andiamo.»
Le faccio strada e, mentre camminiamo lei tira fuori il cellulare.
Vorrei sapere dove sbaglio.
Perché non dice niente?
Capisco che la situazione tra noi è quella che è, ma potrebbe per lo meno essere garbata.
«Dove stiamo andando?» domanda riponendolo e il peso che ho sul cuore si riduce.
«Senti, Camilla- prendo un grande respiro- non ho soldi per andare in posti carini, posti alla tua portata.»
«Cosa intendi con alla tua portata?» chiede alzando un sopracciglio per poi procedere dritto.
«Posti adatti a te, all'eleganza dei modi che hai di fare.»
«Non so dove tu abbia visto questi atteggiamenti, e comunque preferisco un hamburger pieno di salsa ad un piatto costoso.»
Spero vivamente che la pensi così: non voglio che mi consideri come un poveraccio, ma in questo istante non posso permettermi di più.
Arriviamo di fronte al fastfood, che pullula di gente e il cui parcheggio è stracolmo di auto.
Facciamo la fila, lunghissima, ma finalmente è il nostro turno: ordiniamo due hamburger giganti con una tonnellata di patatine e una bibita ghiacciata.
«Voglio che tu sia sincero- posa la bibita sul tavolo producendo non poco baccano, poi mi guarda negli occhi e mi spoglia- cosa hai combinato ieri sera?»
Anche questa volta è come se mi facesse una radiografia: vede tutto di me.
«Mi sono drogato.» ammetto senza smettere per un secondo di fissarle il viso.
«Ma non è stata una mia scelta. Ho avuto la sfiga di beccare una pasticca disciolta all'interno di un bicchiere.» aggiungo come per giustificarmi.
Camilla sospira, mi sento sotto pressione come se fosse mia madre:«Ti rendi conto?»
«Sì- annuisco- ma non toccheró mai più quello schifo. Te lo giuro.»
Lei non dice niente, ma mi porge la mano, attendendo che io la stringa in segno di promessa e così faccio.
Non avrò mai più bisogno di quella roba, né di alcol se lei riuscirà a starmi affianco.
Il mio desiderio è tormentoso, disperato e non mi lascia stare.
«Parliamo di cose più serene, adesso.» ridacchia lei ed io sono tutto orecchi.
«Di cosa?»
«Parliamo di gelati. Ti va di prenderne uno? Conosco un posto eccezionale.»
Annuisco e le sorrido.
Lasciamo il locale e, appena all'altro lato della strada si trova quella gelateria.
Fa abbastanza freddo, ma poco importa: al gelato non si rinuncia, soprattutto se offerto dalla ragazza della quale si è innamorati.
No anzi, glielo offrirò io.
«Che gusti prendi?» domanda impiantando gli occhi sulla vetrina.
«Fragola e cioccolato.»
Intanto la donna dietro al bancone me lo serve.
«Io nocciola e crema.»
I coni ci vengono consegnati ed io pago alla cassa, nonostante Camilla mi stia gridando dietro poiché era lei a volermelo offrire.
Ci sediamo su una panchina gustandoci il gelato, e solo il Signore sa quanto vorrei metterle il braccio attorno al collo e leccarle il gelato che le è rimasto sulle labbra.
Oppure anche addosso... sul suo corpo soffice e caldo.

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