XXXVI - UNA CENA SCOMODA

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Leonardo.

«Perché scappi?» spezza così il silenzio la voce flebile di mia madre, ma non riesco a guardarla negli occhi: sto dando le spalle a tutti, ho intenzione di raccogliere le mie forze e andare via di qua.
Faccio per spalancare il portone di ingresso, ma mi accorgo che i tre mi stanno fissando e ciò mi manda su tutte le furie: che cosa vogliono?
Non gli è forse bastato vedermi crollare in questa maniera ridicola?
«Ho fatto degli errori- aggiunge la mamma ed io non ne posso più di sentirla, ho la testa che scoppia- però ti prego dammi almeno la possibilità di raccontarti delle cose importanti!»
Scuoto la testa da destra verso sinistra: «Ormai non c'è più tempo.»
Le mie parole si rompono, si sgretolano mano a mano nella gola.
Sto aspettando che quest'imbecille di suo marito e la sua stupida figlia ci lascino soli, perché questa conversazione non gli riguarda, o almeno, non interamente.
E invece stanno lì impalati con lo sguardo da pesci lessi, bramosi di farsi gli affari nostri.
«Ti prego- sussurra, e un velo di lacrime le nasconde quegli occhi che un tempo erano indistruttibili, pieni di vitalità e di un azzurro vivido che non si trova dappertutto- resta qui.»
Cerco di ricompormi e mi calmo: un respiro profondo e tutto va a posto.
«Resto, ma dopo cena torno a casa.» proferisco deciso e dando l'ennesima occhiataccia alle figure estranee che mi osservano come se fossi un alieno.
«Per me significa molto, lo sai.» asserisce mia madre, ma non ho intenzione di controbattere e parlarle di nuovo a vanvera.
Lei sparisce in cucina e mi consiglia di sedermi in giardino: resto qualche minuto con il naso per aria a guardarmi intorno.
Mi gira la testa da quanto è grande questo posto, certo anche casa nostra ha delle dimensioni che non passano inosservate, ma questa è proprio una reggia!
Le camere dovrebbero trovarsi al piano superiore, in quanto qui vedo solamente lo spaziosissimo salotto e la cucina, che è il sogno di ogni donna del mondo: possiede un bancone in muratura lungo diversi metri, sul quale sono appoggiate delle ciotole da cui strabordano frutti maturi, resi ancora più lucidi alla vista da due lampadari che pendono.
«Leonardo- mormora una voce dietro di me- volevo presentarmi.»
L'uomo mi studia in modo indecifrabile, ma tremendamente composto: i suoi occhi sono neri come la pece, talmente scuri che mi incutono terrore, e le sue labbra sono schiuse appena.
Allungo la mano nella sua direzione, aspettando che la stringa, e la sua presa sembra spaccarmi le ossa.
Non so cosa sia opportuno dire, allora opto per stare zitto perché forse è meglio così.
L'uomo è visibilmente in imbarazzo, difatti si limita a manifestare qualche sorriso abbozzato:«Accomodati pure fuori, se ti va.»
Alzo lo sguardo, cercando il suo, e poi vado fuori a prendere una boccata d'aria.
Mi accendo una sigaretta e resto lì, perso nel vuoto: non so perché mi sono cacciato in questa situazione, che mi sta solamente procurando disagio e malessere.
Sento una presenza dietro di me: è la ragazza, che esattamente come il padre mi fa la radiografia senza però aggiungere niente.
«Hai bisogno?» la precedo io, forse un po' maleducatamente.
«No- proferisce tutto d'un fiato- pensavo volessi compagnia.»
Butto fuori il fumo:«Se puoi dirmi qualcosa che possa farmi stare meglio, allora fatti avanti.»
Immediatamente diventa paonazza: è piccola, sicuramente avrà un paio di anni in meno di me, e sta cercando di intavolare una discussione fin troppo scomoda.
Rimane in silenzio, dal suo volto non traspare alcuna emozione, forse è timida.
«Come mai sei venuto?»
«Speravo di avere dei discorsi con mia madre.» dico dando per scontato che in realtà è andato tutto storto.
«Lei parla molto di te.» asserisce con un filo di voce.
«Non credo proprio.» ridacchio amaramente, tento di nascondere i miei turbamenti, anche se sono troppo grossi.
«Spero possiate risolvere, sarebbe un peccato se troncaste i rapporti.»
«È già successo, tranquilla.»
Le porgo il mozzicone e lei mi indica un posacenere poggiato sul tavolo.
«Comunque non ti sei ancora presentata.» sottolineo cambiando argomento, perché nessuno può capirmi.
«Sono Alice, piacere.»
Sorrido forzatamente, mentre provo a portare avanti la conversazione che senza di me sarebbe già morta dal principio.
«E quanti anni hai?»
«Ne ho quattordici, e tu?»
«Io ne faccio diciotto la settimana prossima.»
Finalmente sorride: porta l'apparecchio, ma è carina nel suo essere ancora una bambina.
«Passerai di qua?»
«Non penso proprio. Potrebbe essere l'ultima volta che mi vedi.» sputo acido, per qualche secondo mi ero dimenticato il motivo per cui ho messo piede in questa casa.
«Tua mamma vorrà di sicuro darti il regalo.»
Annuisco:«Se vuole farlo, è libera di venire a casa nostra- mi accorgo dell'errore- mia, intendevo dire.»
«La convincerò io.» proferisce con una nota di divertimento nella voce, ma poi torna seria e il volto le si dipinge nuovamente di rosso.
«Non hai motivo di vergognarti di me.»
La mia affermazione in realtà, piuttosto che calmarla, la fa agitare ancora di più: ho capito che la sto mettendo a disagio, allora mollo la presa e vado a sedermi su un ridicolo dondolo posto un giardino.
Tiro fuori il cellulare e scrivo un messaggio a Camilla.
Leonardo: Sono da mia madre.
Sorprendentemente mi risponde quasi subito, ma decido di contattarla più tardi, non ho voglia di fare l'asociale in questo momento così importante.
Camilla: Se hai tempo, passa da me questa sera che ne parliamo.
Appena la vedrò, avrò bisogno di calmarmi facendoci l'amore.
Chiudo gli occhi per svariati minuti, mi sto per addormentare, ma un profumo di cibo stuzzica i miei succhi gastrici.
«È pronto!» esclama mia madre con una teglia in mano.
Raggiungo tutti al tavolo, non sapendo dove sedermi, ma grazie al cielo mi viene lasciato il posto accanto alla mamma.
«Buon appetito.» proferiamo in coro, per poi procedere con quella che definirei una cena muta, nessuno osa far uscire un vocabolo dalle proprie labbra, forse sarà l'inquietudine che ognuno di noi, in un modo o nell'altro, sta provando.
E io man mano sento di star andando sempre più giù.

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