L'ODORE DI FIORI

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Ricominciata la scuola, Tori riprese la sua snervante routine, che odiava tanto. Restare chiusa in classe con il bel tempo può considerarsi una vera e propria tortura. Concentrarsi era impossibile.
L'immagine del mare in lontananza l'aveva catturata a tal punto da non riuscire più a sentire la Professoressa Jumpwais, l'insegnante di greco.

Il suono della campanella arrivò lontano, come se stessi sott'acqua, e anche i miei movimenti erano lenti, mi sentivo pesante, come se dovessi ad ogni movimento spostare masse di oceano. Una volta ripresa, afferrai il solito zaino e mi diressi da Starbucks, a qualche isolato di distanza.
Stavo giocherellando assente col bordo della tazza quando sentii una voce familiare dire: "Ehi! Noi ci conosciamo per caso?".
Cazzo.
Lo guardai nei suoi fantastici occhi azzurri, aspettando che si rendesse conto da solo dove mi aveva già vista. Un "ahhhhh...sei tu vero?", accompagnato da un gesto che indicava la fronte, mi fece capire che ci era arrivato.

"Senti, scusa per l'altra volta, non l'ho fatto di proposito, ma gradirei essere lasciata in pace."

"Ah, tranquilla, vecchia storia, comunque io mi chiamo Ryan, e te?"

"Lo so chi sei e, se devo essere sincera, non me ne frega un cazzo."

Quale parte di 'lasciami in pace' non capiva? Tanto bello quanto stupido. Terminai la spiacevole conversazione con un sorriso, mi sporsi per afferrare lo zaino e mi avviai alla porta come si vede spesso nei film d'azione. Avevo quell'aria da dura e da figa, che terminò più in fretta del previsto, non appena spinsi con energia una porta su cui ci stava scritto 'tirare'.

Tori era sdraiata sul letto, coi piedi a penzoloni, giocherellando pigramente con un ciuffo di capelli. Dalla finestra entrava una luce soffusa e aranciata, segno che il sole stava lentamente tramontando. Ascoltava il rumore del vento e il ticchettio della pioggia, le palpebre che piano piano di chiudevano.
Un rumore assordante la svegliò di soprassalto. Accese il telefonino, e una bianca luce si diffuse in tutta la stanza. 3:48.

Presi dal cassettone un paio di morbidi calzetti color celeste, me li infilai velocemente e scesi le scale di legno cercando di non cadere. Indossavo ancora i vestiti del pomeriggio, e l'aria fredda della notte che trapassava il sottile tessuto mi congelava le ossa.
Chiusi la finestra della cucina con un gesto meccanico, e poi mi avviai in bagno. Qualcosa, anzi, qualcuno, interruppe il mio pigro percorso verso il gabinetto. Jennyfer Patch si trovava in piedi davanti alla porta del bagno, ed essendo alta almeno 15 centimetri buoni in più di me, mi poteva tranquillamente squadrare con fare quasi teatrale. Mi superò, disgustata dalla mia presenza, tornando da dove era arrivata. Camera di mio fratello.
Un senso di vomito mi colse impreparata. Poi notai il bagno. Era invaso da canne, siringhe, bottiglie di Jack Daniel's e preservativi. Nella vasca un ragazzo in coma etilico. Stava galleggiando nel suo stesso vomito. Pisciai e tornai in camera, lasciando tutto come lo avevo trovato.

I ciliegi erano ormai fioriti. Le sue All Star nere calpestavano i petali ormai caduti, il vestito rosso si intonava al paesaggio. Ad ogni passo veniva pervasa dall'odore di fiori di Seven Street, il suo viale preferito sin da quando era una bambina.

Raggiunsi la costa, arrampicandomi sulla punta più alta della scogliera. Il paesaggio era mozzafiato: da questo punto si poteva vedere l'orizzonte incontrare il mare in una linea perfetta. Le onde regolari sotto la scogliera erano appena percettibili, quasi fossero la colonna sonora di quello spettacolo della natura. Dietro di me, la città, con le sue casette colorate e i gli alberi fioriti.
Due mani forti e calde entrarono a contatto con la mia pelle, cosa che mi provocò un brivido su tutta la schiena. Mi voltai di scatto, e rimasi ancora una volta immersa in quei fantastici occhi color cielo di Ryan. Per qualche secondo ebbi la sensazione che anche lui si fosse perso in qualche ricordo guardando nei miei.

"Ehi...scusa. Non volevo spaventarti.".

"Tori". Pronunciai il mio nome con un tono di voce tale che le parole si persero nel vento.

"Come scusa?".

"Volevi sapere il mio nome, quella volta da Starbucks. Mi chiamo Tori.".

Il suo viso si fece raggiante, e la sua felicità mi pervase. Era un sentimento nuovo, mai provato prima, ed ogni cellula del mio corpo se ne era già innamorata. Ne volevo ancora, come si desidera incessantemente una droga, e questo invece lo conoscevo bene.
Stranamente, lui non appariva disgustato o infastidito dalla mia presenza. Al contrario, voleva parlare con me, voleva conoscermi. Parlò per almeno un'ora, ed io mi persi nella sua voce, quasi volessi memorizzarla. Davanti a noi il sole stava affondando nell'oceano, regalandoci una vista straordinaria. Guardammo il tramonto, aspettando la notte.
Quando aprii gli occhi Ryan scomparve, come scompaiono le ombre quando ormai è notte. Per qualche strana ragione, il mio cuore batteva a mille. Non appena mi resi conto di stare sorridendo come una deficiente, richiusi la bocca e mi tirai su goffamente.

Tori stava camminando lungo il bordo della strada, quando due fari la illuminarono. Jennyfer e la sua migliore amica, Riley, si trovavano nella fantastica Ducati nuova di zecca di Adam Leistig, uno dei 'popolari' a scuola. A quanto pare la popolarità si misura dalla quantità di 'follower', di 'mi piace' su facebook e dalla bellezza fisica. Se fosse l'intelligenza a definire una persona figa e popolare, loro non lo sarebbero sicuro. Se Tori avesse aperto il loro cervello probabilmente ci avrebbe trovato il coniglietto di pasqua.
La macchina gli sfrecciò vicino, accompagnata da qualche suonata di clacson. Simpatici.

Pagai e uscii dal Fast Food con aria soddisfatta. Il sacchetto unto arricciato nella mano sinistra. La destra la tenevo pigramente nella tasca della felpa, giocherellando con le chiavi, che emettevano un piacevole tintinnio ad ogni tocco. Terminai la mia cena seduta sui freddi gradini di marmo, dalla finestra del soggiorno una lieve luce. Qualcuno era ancora sveglio. Entrai in casa, Thomas sdraiato sul grande divano grigio, ormai rovinato dal tempo, il tavolino ricoperto da uno strato di droga, pure di basso costo. "Santo cielo, Thomas, se devi per forza rubare i soldi della mamma per farti una dose, almeno comprala di buona qualità" gli sussurrai a bassa voce, pur sapendo che in quello stato sarebbe stato impossibile sentire qualsiasi cosa.
Spensi la luce della cucina, mi tolsi le scarpe e iniziai a salire le scale, gradino dopo gradino, fino a quando una mano mi toccò la spalla. Non era come il tocco caldo e gentile che avevo percepito nel mio sogno, quello di Ryan, questo mi provocava una strana sensazione, quasi di disagio. Poi capii. Quello che all'inizio avevo scambiato per un lieve tocco era invece una presa forte, sicura, e cattiva. Mi sentii tirare verso il basso. Poi solo un dolore lancinante. E il buio mi invase.

Col profumo del mareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora