Capitolo 5

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Edwyn e Heagan proseguirono verso Nord per diversi giorni, fermandosi solo dopo il tramonto per poche ore lontano dalla strada. Dormivano a turni mentre l'altro montava la guardia. Erano costretti a farlo, dal momento che in quei tempi inquieti non era affatto consigliabile farsi cogliere impreparati dalle frequenti bande di briganti. Edwyn avrebbe voluto viaggiare giorno e notte, come aveva fatto durante la fuga verso Basöl. Comprendeva, però, le motivazioni di sicurezza, così come la necessità di restare il più possibile riposati e vigili man mano che ci si avvicinava a potenziali zone di scontro.
Procedendo in quel modo impiegarono il doppio rispetto al viaggio di andata per raggiungere l'imboccatura della valle in cui sorgeva il villaggio di Lexyl. Arrivarono quando il giorno volgeva ormai al termine, ed il buio calava ormai come una tela nera srotolata sopra la terra.
Mentre Edwyn staccava il suo cavallo dal carretto e lo legava ad un albero accanto a quello dell'amico questi si addentrò nel ciuffo di piante accanto cui si erano fermati per tagliarne alcuni rami da utilizzare per reggere le tende.
Quando Heagan ritornò depose i rami a terra ed estrasse teli e coperte dal carretto, nascosto fra la vegetazione.
-Come mai tutta quella roba?- chiese Edwyn adocchiando le due coperte che giacevano arrotolate ai loro piedi.
-Niente fuoco, stanotte!- si limitò a rispondere il Capitano.
-Pensi che quelli.... possano essere ancora qui intorno, vero? E le fiamme nel buio potrebbero farci scoprire.- commentò Edwyn dandosi da fare per aiutare il compagno ad erigere i ripari. Nonostante il loro primo incontro non fosse stato dei più amichevoli ora non poteva fare a meno di ammirare l'intelligenza tattica ed i consigli pratici di quell'uomo così particolare.
-Però! Cominci ad imparare qualcosina, eh? D'altra parte con un maestro del genere... Hey!-
Heagan si sollevò carponi dopo che Edwyn l'aveva scherzosamente colpito mandandolo lungo disteso fra le foglie secche:
-E questa è la seconda volta che ti stendo, Maestro!- sorrise il giovane mettendo un'enfasi volutamente esagerata sull'ultima parola. I due si guardarono in cagnesco per un secondo. Poi Heagan accennò un sorriso.
Quella sera la cena fu particolarmente veloce, dal momento che non si poteva cuocere nula sulle braci: pane, formaggio, carne secca e un po' d'olive salate.
-Tieni un po' di queste.- disse Heagan al compagno allungandogli un sacchettino. Edwyn lo aprì e vide che era pieno di quelle che si rivelarono essere palline di farina di castagne impastata con liquore. -È l'unica cosa che può darci velocemente un po' di energia e di calore. Due buoni motivi per cui ne usiamo montagne nell'esercito quando siamo fuori di guardia o di ronda e non possiamo accendere fuochi. Vedrai che funzionano... e in fin dei conti non sono neanche malaccio.- e ne ingoiò un paio. Anche Edwyn seguì l'esempio del compagno e annuendo poco convinto estrasse un paio di palline dal suo sacchetto. Effettivamente il gusto non era malvagio, anche se erano un po' forti: in fin dei conti era per quello che avrebbero funzionato.
-Chi monta di guardia?- domandò il giovane guardandosi intorno -Immagino che qui servirà fare dei turni per tutta la notte, no?-
-Tranquillo, non cambia nulla: i cavalli lo sentiranno subito, se si avvicina qualcuno, come ieri sera, ricordi?- lo rassicurò Heagan. La notte precedente erano stati svegliati un'ora prima dell'alba da un altro nitrito e dallo scalciare dei cavalli che avevano notato la luce di una lanterna muoversi giù ai piedi della collina dov'erano accampati. Evidentemente qualche mercante aveva deciso di riprendere il suo viaggio con il favore delle tenebre.
-Hai ragione. Be', tanto meglio. Sono a p... pezzi.- sbadigliò il ragazzo, stendendosi su un cumulo di foglie ed avvolgendosi nelle coperte. Il cinturone con la spada infoderata giaceva accanto al ragazzo così come la lancia di Heagan al fianco del soldato, mentre le armature smontate erano state riposte per la notte sul carretto.

Il cavaliere in nero vide il piccolo convoglio fermarsi a notte fatta accanto ad un macchione di alberi e preparare il campo per la notte. Tirò le redini e fermò la sua cavalcatura alla base della collina che salì a piedi tenendo la bestia per le briglie. Di lassù avrebbe potuto tenere d'occhio i due uomini finché fossero stati lontanissimi: loro però non l'avrebbero potuto scorgere da una tale distanza, anche quando il sole all'alba avesse superato le creste dei rilievi.
Il cavallo nero prese a brucare tranquillamente, indifferente ai movimenti del suo padrone che trafficava poco lontano. L'uomo estrasse da sotto la sella una sottile lamina dello stesso metallo scuro e lucente del quale era fatta la sua spada. Sfoderata l'arma la infilzò nel terreno appoggiandovi la lastra. Da lontano sarebbe potuto sembrare un pittore che, sistemata la sua tela contro un bastone, si apprestasse a dipingere il paesaggio davanti a sé. Radunò quindi alcuni legnetti e foglie secchi che dispose in cerchio davanti al quadro improvvisato e si sedette al centro del cerchio. Estrasse quindi due bacchette di pietra rossiccia che sfregò producendo scintille che accesero il cerchio di foglie e rametti intorno a lui.
Una luce tremula e fioca più simile a quella della brace che ad una fiamma illuminò l'uomo. Quando infine il bagliore gli parve sufficientemente intenso l'uomo alzò le mani con le palme rivolte verso la lastra di metallo e parlò. Non furono parole comuni ad uscire dalle sue labbra: fu piuttosto un bisbiglio, un sussurro simile al soffio della morte che disperde la vita dagli occhi degli uomini. Si trattava di una formula antichissima, in una lingua ormai perduta, che gli era stata tramandata ormai... neppure lui sapeva più bene quanto tempo prima... troppo, in ogni caso, decisamente troppo per quella che comunemente si definisce vita.
L' immagine riflessa sulla piastra divenne sfuocata quando una sorta di nebbia la invase gradualmente e, quando questa si fu dissolta, il riflesso del cavaliere in nero era svanito... l'immagine era cambiata radicalmente.
Quello che ora si vedeva nello specchio non solo non era il riflesso dell'uomo in nero: non era assolutamente un riflesso di alcun genere. Lo specchio si era tramutato in una sorta di finestra su una stanza buia.
Al centro dell'ampia sala si vedeva una figura oscura seduta su un sontuoso trono rivestito di pelliccia nera e decorato da lucenti borchie di ferro brunito. L'aspetto dell'uomo era talmente imponente e terribile da incutere un qualcosa di simile al timore, o per lo meno profondo rispetto, anche in un essere potente e solitamente freddo come il cavaliere nero. L'uomo seduto sul trono era avvolto in un pesante mantello color sangue bordato di ricami in filo d'argento. Le braccia, incrociate sul petto, erano appena visibili tra le pieghe del mantello trattenuto da un fermaglio ricavato da quelle che sembravano due lunghe zanne acuminate. Non erano quelli però gli aspetti più terribili di quella figura: il capo era la parte più inquietante dell'aspetto di quell'uomo. Dal collo del mantello emergeva una maschera che copriva completamente la testa dell'uomo. Non si trattava neppure propriamente di una maschera, quanto piuttosto di una sorta di elmo. L'oggetto era modellato rozzamente e con forme squadrate a rassomigliare nelle intenzioni un volto umano, ma privo della consueta morbidezza dei tratti che erano invece rigidi, spigolosi e squadrati, come se fossero stati tracciati da uno scultore mediocre che avesse solo un'idea molto vaga di come un volto umano dovesse apparire. Sulla fronte dell'elmo era incastonata una pietra dorata, come una sorta di terzo occhio che emanava un'aura di profonda e pulsante luce d'oro. Era questo l'unico elemento apparente di calore e luce, anche se non si poteva dire che gli occhi dell'uomo ne giovassero. Il suo sguardo infatti, un tempo indubbiamente affascinante e magnetico, appariva ora spento e glaciale. Sembrava che non ci fossero due occhi umani dietro gli unici fori dell'elmo, quanto due neri pozzi senza fondo simili ad orbite vuote.
Dopo qualche secondo dalla sua comparsa l'uomo finalmente parlò e la voce parve emergere cupa e fredda, quasi metallica, dalle profondità della maschera:
-Buona sera, Comandante. Il rapporto, avanti.-
-Buona sera, Sire.- cominciò il cavaliere portandosi la mano sinistra sul cuore e la destra alla fronte nel saluto previsto tra i ranghi di quell'esercito: -La missione è compiuta, mio Signore: il villaggio non esiste più ma...-
-Cos'è questa storia? C'è qualcosa di cui dovrei essere informato?-
Il tono dell'uomo mascherato s'indurì ancora di più, l'espressione stessa impressa sul volto metallico sembrò farsi ancora più rigida.
-Ci sono stati sopravvissuti, mio Signore.-
-Cosa?- tuonò l'Imperatore Morak: -E quanti ve ne sareste fatti scappare, branco di incapaci?!-
-Probabilmente solo uno, Maestà. Ma è tutto sotto controllo.- replicò il Cavaliere nero a denti stretti mentre gli occhi lampeggiavano impercettibilmente di rabbia per l'insulto al di sotto del cappuccio del mantello.
-Come sarebbe adire, Comandante?-
-L'ho seguito, Signore. Ha viaggiato fino a Basöl, al Palazzo Reale, per chiedere aiuto presumo. Non deve aver avuto successo, comunque. Immagino che non abbiano risorse e uomini da poter sprecare in missioni di secondaria importanza come sarebbe stata quella.-
-Significa che stiamo mettendo pressione sul mio debole fratello... ottimo, ottimo.- commentò l'Imperatore Morak tra sé.
-Il ragazzo ha comunque ottenuto armi ed equipaggiamento, così da poter continuare in autonomia il suo viaggio. Mentre usciva dalla città ci sono stati... alcuni eventi imprevisti...Comunque ora ha un compagno, il Capitano della Prima Cavalleria Hea...-
-Non nomini quel vigliacco... Bastardo traditore!- tuonò l'Imperatore Morak in un accesso d'ira, battendo il pugno sul bracciolo del trono, che scricchiolò e si spezzò. Era la prima volta nel corso di quel colloquio che l'uomo perdeva il controllo e nel passato al Comandante era accaduto in pochissime altre occasioni di vedere l'apparente corazza gelida dell'Imperatore incrinarsi.
-Mi perdoni, mio Signore.- cercò di placarlo il Comandante, abbassando per una frazione di secondo gli occhi.
-Non importa. Arriverà il momento di saldare il conto- commentò l'Imperatore a mezza voce, rivolgendosi più a sé stesso che al suo interlocutore: -E ora cosa stanno facendo i due fuggitivi?-
Gli occhi del Comandante lampeggiarono momentaneamente di giallo, come quelli di un gatto. Il suo sguardo si fece più acuto di quello di qualsiasi uomo comune, volò al di sopra dell'immagine del suo signore e penetrò l'oscurità, meglio di quanto avrebbero fatto gli occhi di un falco o di un qualunque rapace notturno, posandosi sul piccolo campo a circa un chilometro da lui. Riusciva a vedere tutto con una chiarezza sorprendente, come se si trovasse a pochi passi dal bivacco.
-Si sono ritirati, Signore. Sono ai margini di un gruppo di alberi, hanno nascosto il carro là dentro e legato i cavalli. Sono entrambi già nelle loro tende... niente fuoco da campo e niente turno di guardia. Sembra si aspettino di poter essere attaccati, ma si fidano del carattere pauroso dei cavalli per l'eventuale allarme.- recitò il Comandante in tono secco ed efficiente, da rapporto militare: -Ritengo che domattina entreranno nella valle, probabilmente in cerca di sopravvissuti giù a Lexyl.-
-Bene, Comandante, bel lavoro. Continui a seguirli e faccia nuovamente rapporto appena avrà novità.- ordinò l'Imperatore con un gesto della mano come se volesse scacciare un insetto che, nel linguaggio in codice dell'Esercito Imperiale equivaleva al più classico e perentorio dei "Può andare".
-Sì Signore.- rispose il Comandante chinando rispettosamente il capo e ripetendo il saluto che aveva aperto l'incontro. Un istante dopo il denso fumo grigio che aveva preannunciato l'apparizione dell'Imperatore tornò ad invadere lo schermo di metallo lasciando in breve il cavaliere a fissare nuovamente il proprio riflesso. Il Comandante rimosse piastra e spada, cancellò le tracce del cerchio di ramoscelli ormai bruciati e si stese finalmente a riposare.
Finalmente solo, si ritrovò senza saperlo ad accarezzare distrattamente il gioiello d'argento a forma di rametto che portava al collo. Pensava alla missione che stava compiendo, alle motivazioni ed ai suoi scopi. Era convinto che quello Specchio Nero gli sarebbe tornato certamente molto utile, come già aveva sperimentato in passato: nessuno ne conosceva i poteri più a fondo di lui, nessuno, forse neppure l'uomo che gliene aveva fatto dono. D'altra parte, rifletté, come si può non conoscere alla perfezione una cosa quando la si porta con sé da anni... da molti più anni di quanto un qualsiasi altro oggetto possa durare ed un uomo comune sopravvivere....

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