Giugno 24, 2017

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È già da un paio di notti che, quando ogni luce della casa è stata spenta, lei si avvicina all'uscio della mia porta, rimanendone con un piede fuori, e l'altro dentro, ad attendere.

Se non fosse per il chiarore della luce, non la vedrei nemmeno.
Stanotte, mentre fingevo di dormire, mi son mosso sul letto, giusto per sapere se sarebbe scappata via...
Con la schiena rivolta verso l'uscio, mi son sentito immobilizzato quando ho sentito il suo corpo sdraiarsi al mio fianco, e la sua mano solcarmi un braccio, muovendo l'indice sopra il mio polso, lentamente, come fosse una piccola carezza.
Bisbigliava, qualcosa di incomprensibile, con delle parole che non avevo mai sentito prima -sempre che di quelle si potesse parlare.
Poi il suo respiro fra i miei capelli. Un tuono. Un lampo.
Sentivo che le lacrime scendevano giù copiosamente – e tutt'ora fatico a non sporcare il foglio con queste.
Ho provato a spostare l'attenzione verso qualcos'altro, ma le sue mani sembravano non permettermelo, ora che l'altra aveva raggiunto i respiri, formando dei piccoli cerchi sulla nuca.
Mi chiedo se davvero non abbia notato tutto il mio tremore. Gli spasmi impetuosi che lo pervadevano inesorabilmente.
Di scatto, le ho afferrato il polso, cercando di fermarla, nonostante sapessi -ed è stato proprio questo che mi ha convinto a farlo- che io non volessi fermarla.
Si è ritratta di colpo, spingendomi via -come se fossi io l'intruso nel suo letto!- e, a piedi nudi, è corsa fino in camera sua, battendo forte la porta.
L'ho sentita urlare, straziante, in mezzo a quella tempesta che, in perfetto tempismo, aveva preso a venir giù contro i miei occhi sgranati. Ha urlato e urlato, battendo i pugni -immagino- contro qualcosa, finché un singhiozzo sommesso non ha preso il posto di tutta quella rabbia.
L'ho sentita andar così per un'ora buona, finché, credendo che si fosse addormentata, mi sono alzato per origliare dietro la sua porta. Dei mormorii rauchi e sommessi, i denti stretti.
Mi son chinato fino alla serratura. Buio.
La mano ha insistito sulla maniglia, trovandola aperta.

L'ho riconosciuta benissimo la camicia che mi aveva regalato Kaleb per un compleanno, addosso al suo corpo nudo, le gambe libere risplendere bianchissime. Aperta sul petto, respirava esanime dentro quel cotone pallido. Un altro tuono. Le ho preso i polsi, spostandoli dalle gambe, trovandovi dei graffi, profondi, bagnati, bruciarle ad ogni tocco.
Non volevo che mi sentisse piangere.
Ma credo sia stato inevitabile.
Gettandomi le braccia al collo, invece che tirarsi su, ha lasciato che le mie ginocchia battessero sul pavimento, e le mani si reggessero al muro dietro lei, per non finirle addosso.
Ha continuato a piangere, fra i miei singhiozzi, calciando le mie cosce così che scivolassero via e mi sdraiassi sul suo grembo. Ma non potevamo permettercelo.
Col naso dentro ai suoi capelli sciolti, ho sentito il petto fremere perché potessi respirarne di più, tenendola stretta per tutto il tempo che avessi voluto.
Poi due dita hanno solcato il mio petto, sopra la camicia da notte, fino ad arrivare al collo.
Le stesse dita, scendendo appena, hanno sfibbiato un bottone, così che la mano strisciasse sopra una clavicola.
Dopo, solo il buio.
Il mio corpo in piedi.
Un suo urlo.
Vattene via.
L'ho chiusa in camera, così che potesse non venirmi a trovare.
L'ho chiusa, in modo tale che non potesse andar via lei.
L'ho chiusa, e adesso che è mattino, posso ancora sentir i suoi occhi che, dietro la porta, stanno aspettando solo che io apra per urlarmi contro.

D'altronde, è solo colpa mia.



  (note: il disegno in foto è stato realizzato da Egon Schiele. "Standing Male Nude, Back View", 1910)  

W. B., Letters from Nowhere [🌈LGBT+ STORY]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora