Jamila - Parte 4 -

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Detto questo, Nasim tacque e chinò la testa, nascondendo il volto alla luce. Il fuoco era calato. Le fiamme vacillavano nel vento, aggrappandosi ai tizzoni anneriti. Andavano aggiunti altri arbusti, ma nessuno accennava a muoversi.

– Hai parlato come se tu fossi stato presente, Nasim – balbettai.

Il mio amico annuì distrattamente.

Alzai gli occhi al cielo, cercando sollievo nella purezza della volta celeste, ma il mio sguardo si perse a percorrere le ombre immobili del fogliame delle palme, curve su di noi come ali d'avvoltoio.

– C'era una voce nel vento – mormorò Nasim, cogliendomi di sorpresa.

– Cosa intendi dire?

– Sussurri nei pensieri, che mi hanno suggerito le parole da pronunciare.

Non mi sembrava più di avere di fronte il Nasim che conoscevo, ciarliero e sarcastico, e non sapevo cosa dire. Io stesso mi sentivo profondamente turbato da quanto avevo udito.

– Ti sei lasciato spaventare dalla tua stessa storia, amico mio, che certo non può essere vera – provai a dire.

Nasim sorrise, e le sue labbra si contrassero in una smorfia gelida come quella di un cadavere.

– Sai dove sorgeva il palazzo di Jamila? – mi apostrofò.

– No – ammisi, – benché abbia cercato di ricordarlo. Eppure sono certo di averlo saputo un tempo.

Nasim annuì.

– Così ha voluto la maledizione del Gran Visir Rashid, e così ha disposto il potere del genio che gli obbediva. Questa non é forse una prova di quanto ti ho raccontato?

– Io... non so...

Ma ora ascolta...

– Cosa? Non odo niente.

– Le voci che mi hanno narrato la storia si fanno più forti, più vicine. Non odi anche tu questo canto? Il richiamo di molte voci? – sussurrò con occhi spiritati. – Sono dunque divenuto pazzo?

Feci per cercare di tranquillizzarlo ma mi fermai perché il vento mi aveva sfiorato e, come se avessi appena tolto la testa dall'acqua, ora udivo quello che prima non c'era.

– No, non sei pazzo – dovetti ammettere.

Cavalcando le più misere correnti d'aria, o forse strisciando come serpi sulla sabbia, suoni lontani giungevano a noi: erano fatti di risa sguaiate e del cozzare ovattato di oggetti, di gemiti soffocati e grida bestiali che si fondevano in un lamento continuo.

Cercai a lungo tra le ombre delle dune ma non riuscii a scorgere niente.

– Cosa accade? – chiesi con la voce rotta di paura. – Sembra che stia passando una carovana, o una processione, ma chi attraverserebbe il deserto al chiaro di luna?

Nasim non rispose ma si alzò, avanzando oltre la sfera di luce proiettata dal fuoco.

– Dove vai?

– A vedere – rispose con una calma inquietante.

– Perché? Non sarebbe meglio restare qui?

– Da quali pericoli può proteggerti il chiudere gli occhi? – mi sbeffeggiò. – Di certo non sarà questo fuoco, che forse ha già svelato la nostra presenza, a proteggerci. Voglio conoscere l'origine di quei canti, e voglio farlo nel riparo dell'oscurità.

Si allontanò, ed io non trovai altra forza nello spirito che non quella di seguirlo.

Avanzammo chini tra le dune. A ogni passo le voci si facevano più forti, e parevano incitarci a proseguire. Nasim procedeva deciso, ed io lo seguivo come un cane obbediente. Ma il suo passo era più rapido del mio, e quasi non lo vedevo più. Sembrava mosso da una smania inspiegabile.

– Nasim, non vedi che non vediamo neanche dove mettiamo i piedi? Sarebbe bene tornare indietro – lo implorai.

Mi voltai a cercare il bagliore rassicurante del fuoco e in quel momento il mio cuore morì: alle spalle avevamo solo oscurità, e delle fiamme non c'era più traccia. Che il fuoco si fosse infine spento? Eppure non riuscivo a scorgere neanche il debole rossore delle braci. Di certo non potevamo esserci allontanati tanto. Mi accorsi che anche le stelle erano scomparse. Sopra e sotto di noi c'era la stessa, uniforme, oscurità.

– Nasim? – sussurrai, ma egli non rispose.

Cercai di affrettare il passo ma non riuscivo più a udire il suono dei suoi stivali sulla sabbia. Prima che potessi raccapezzarmi, il vento crebbe a dismisura, tanto che la sabbia cominciò a ferirmi il viso, conficcandosi nella pelle con punture brucianti. Benché non vi fosse stato alcun segno premonitore, stava principiando una tempesta: eravamo in grave pericolo. Con gli occhi che lacrimavano, sciolsi il turbante e me lo avvolsi sul volto, conscio che se non avessi trovato a breve un riparo sarei stato perduto. Il vento mutò in un turbinio furioso, artigliandomi i vestiti e sferzandomi con frustate continue. Più volte chiamai il nome del mio amico sputando sabbia, e più volte caddi. Improvvisamente urtai con la spalla un oggetto solido, con tanta forza da lasciarmi sfuggire un gemito soffocato. Lo carezzai con le mani e compresi che si trattava di un muro. Senza avere il tempo di chiedermi dove fossi giunto continuai ad avanzare alla cieca, tastando la parete con le mani fin quando, ridotto in ginocchio dalla furia del vento, trovai un nuovo ostacolo di fronte a me. Tra le lacrime e la sabbia scorsi la massa scura di un edificio imponente, e in essa un arco che si apriva, rischiarato da un fioco bagliore. Entrai.

Mi trovai così in un corridoio, al riparo dalla tempesta che turbinava all'esterno. Avanzai, trovandomi a costeggiare colonnati scuri e arazzi consunti. Tanto mi aveva ferito la sabbia che lacrime di sangue mi rigavano il volto, incrostandosi con lo sporco che mi ricopriva.

Quando mi smisero di fischiare le orecchie, mi resi conto che continuavo a udire il canto, come se fosse stato sempre con me anche mentre infuriava la tempesta. Solo che ora era più forte, più nitido, ed echeggiava tra le pareti dei corridoi, invitandomi a seguirlo. Desideravo fuggire, ma il rombo martellante della tempesta, alle mie spalle, mi torturava, spingendomi avanti come un ringhio di belva furiosa.


- Continua -

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