Emersi in una sala ampia, rischiarata da lanterne accese. Una lunga tavola era al centro, spezzata in due. Avanzai e il canto s'interruppe. Lingue d'ombra calavano dalle suppellettili fino sul pavimento per strisciare lontano, tornando infine ad arrampicarsi tra le colonne, e a contorcersi nelle nicchie come nidi di serpi.
Anche la tempesta cessò di rimbombare attraverso la volta, come se i venti si fossero improvvisamente calmati, tanto repentinamente che mi parve di affogare nel silenzio. Mi sforzai di procedere oltre. Non ebbi però il tempo di fare due passi che udii delle risa, subito mascherate dagli echi che si persero tra le volte.
Tale fu il mio sgomento che mi fermai nuovamente, e non credevo sarei più riuscito a muovermi. Mi sforzai di cogliere altri rumori ma, ancora, tutto taceva. Passarono lunghi istanti, scanditi dal battito del mio cuore, finché non udii un debole gemito, leggero come uno squittio di topo, ma dal timbro di una voce nota.
– Nasim?
L'eco delle mie parole ancora non si era dissolto che sentii un altro rumore, ruvido e continuo, come se qualcosa fosse trascinato sul pavimento. L'istinto mi spinse a seguirlo ma le ombre si mossero come se avessero avuto vita propria e mi cinsero, costringendomi ad arrestare i miei passi. Non vedevo più i confini della sala.
– Vieni avanti – mi chiamò una voce. Difficile spiegare quale suono avesse: era una promessa roca di amante e, al contempo, un richiamo dolce di madre.
– Chi è là? – mormorai. – Chi mi chiama?
Rispose una risata gaia da bambina e nell'oscurità si aprì uno spiraglio. Il mio sguardo scivolò lungo il bordo opposto della tavola per rivelare la creatura che sedeva all'altra estremità. Dal nulla colò una luce di smeraldo che asperse un ventre bianco e delicato, e si fece ancora più lieve per carezzare le coppe di un seno nudo di fanciulla. La sua pelle era pallida e trasparente quanto un velo di latte, tanto che riuscivo a intravedere le sottili vene violacee che cingevano le corolle dei capezzoli. Solo il volto restava nell'ombra, invisibile.
– Tu che sei giunto ad alleviare la mia solitudine, vieni avanti – mi blandì ancora la voce.
In risposta i miei piedi si mossero senza che io lo volessi, e mi sentii costretto a fare un passo avanti, al punto che urtai con il ventre il bordo della tavola.
– Dimmi chi sei – implorai.
– Entrambi i miei consorti sono fuggiti per abbandonarmi a questo tedio. Chi sono già lo sapete, voi che siete giunti fino a qui con il mio nome sulle labbra per alleviare questa solitudine.
– Nasim? Parli di lui? Dove è il mio amico?
Di nuovo udii quella risata da bambina.
– Il tuo compagno ha già bevuto il desiderio dalle mie labbra, già assaggiato il mio frutto. Ora riceve il suo premio: farà parte della mia corte.
Provai un'invidia bruciante per Nasim, che aveva avuto quella creatura prima di me. Mi sentivo divorare dal desiderio impellente di raggiungerla e sfiorare la sua pelle diafana, di poggiare le labbra su quei seni e suggere la frescura di quella pelle candida. Ma avevo ancora un barlume di ragione a cui aggrapparmi.
– Mostrami Nasim, te ne prego.
– È di fronte a te, se proprio lo vuoi – mi apostrofò con voce infastidita.
La luce si mosse e si riversò come una cascata sulla tavola, accolta da un vociare tanto forte da intontirmi. Vidi braccia livide, zampe callose e tentacoli che si protendevano intorno ad un corpo che sussultava e gemeva, sdraiato al centro della tavola, nell'incavo che si era generato quando una forza immane doveva averla spezzata. Sfilavano muscoli e vene, rivoltavano brani di carne e li ricucivano con fili di capelli e aghi d'osso, sollevavano corone d'interiora che sezionavano con unghie taglienti. Un corpo che era stato quello di uomo veniva forgiato, sotto i miei occhi, in nuova forma: aveva arti ripiegati a zampa di ragno su una schiena istoriata di ossa scheggiate, e la spina dorsale gli guizzava dentro e fuori dalla carne per reggere una testa sussultante, completamente ruotata all'incontrario, al punto che ne potevo vedere solo la nuca scarnificata. Quelli che fino pochi attimi prima erano stati dei pezzi sezionati ora già si muovevano, sotto l'azione di un telaio di legamenti e muscoli che vibrava nello sforzo di dominare quel corpo devastato. Perché quella creatura era incredibilmente viva, e iniziava ad agitare le zampe per sollevarsi, mentre un ventre floscio pendeva a sfiorare il legno, coperto di spesse setole. La testa lentamente si piegò per fissarmi, e riconobbi il volto capovolto di Nasim.
– Unisciti a noi, come il tuo amico!
Quel richiamo fu tanto suadente da costringermi a sollevare lo sguardo dall'orrore che contemplavo, e finalmente potei vedere nella luce il volto della donna che mi parlava dal capo opposto della tavola. Quel volto che contemplavo, quel volto bellissimo, era lo stesso che era emerso dalle nebbie della mia memoria mentre Nasim raccontava la sua storia, tra i guizzi delle fiamme. Era il volto di Jamila.
Fu allora che persi del tutto il senno. Iniziai a urlare e feci per fuggire ma l'oscurità si mosse e mi avvolse ancora. Inciampai e caddi in ginocchio. Alle mie spalle udii la creatura che era stata Nasim e che, in qualche modo, forse lo era ancora, flettersi e balzare a terra. Ero ormai prossimo al panico quando scorsi un lieve bagliore, proprio di fronte al naso. Sporsi d'istinto la mano e la afferrai. Raccolsi un dito rinsecchito, e infilato vi era un anello sormontato da un rubino. Lo sollevai, e con sibili di sdegno le tenebre si ritrassero e il canto della corte di Jamila cessò. Comprendendo, con quel barlume di consapevolezza che mi era rimasto, cosa avessi tra le mani, puntai il rubino tra me e Jamila, facendomi scudo di quella luce che le tenebre parevano temere. Fu come se tra me e chi m'inseguiva si fosse frapposto un muro invisibile, e i sibili di sdegno e rancore che ne seguirono me lo confermarono. Arretrai, e le creature mi seguirono, mantenendosi però a distanza. Nasim si muoveva a rapide falcate laterali, grattando con gli artigli il pavimento, ma non avanzava. Spalancò con uno schiocco la mascella e mosse le labbra, come se gli costasse uno sforzo immane. La lingua, divisa in due, gli batté più volte sul mento, mentre una bava giallognola gli gocciolava lungo la fronte e sul cranio scuoiato. Non emise alcun suono, ma ebbi l'impressione che mi chiamasse. Se fossi rimasto ancora un solo istante a contemplare quell'orrore non credo che avrei più avuto la forza di muovermi, ma in quel momento raggiunsi la bocca nera del corridoio. Mi voltai e la imboccai correndo, oltrepassando le pareti di pietra che echeggiavano della risata di Jamila per fuggire dal deserto, e da me stesso.
Una carovana mi raccolse, non so dire dopo quanto tempo, consumato dal sole e dal terrore.
Nel mio vagare dovevo aver perduto, senza neanche rendermene conto, il dito che era appartenuto al Gran Visir. Ancora odo le risa di Jamila e spesso mi sono chiesto se, fuggendo da quel luogo con il rubino per salvare la mia misera vita, non avessi spezzato l'incanto voluto da Rashid che imprigionava Jamila e la sua corte. Se così é stato, temo di aver contravvenuto, per codardia, al disegno di Allah.
Molte volte mi sono trattenuto ad ascoltare racconti di viaggiatori mai tornati dal deserto, con cuore tremante, e mi sono chiesto se avessero scorto anche loro il volto di Jamila. Non ho mai osato tornare a inoltrarmi nel deserto, né narrare ad alcuno questa storia. Ma ora tutto è scritto, e possa Allah perdonare le mie colpe.
Un calpestio nel giardino
Unghie raschiano le pareti.
Un volto appare oltre la balaustra.
Rovesciato.
Nasim.
Fine
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Jamila
HorrorAll'ombra dei pinnacoli maestosi di Yathrib, sotto il regno del califfo Omayyadi, Ayman il Pazzo verga sulla pergamena parole disperate e invoca il perdono di Allah per le sue azioni mentre sprofonda sempre più nella follia. Ma il suo tempo scarsegg...