Capitolo quattro

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Diego

Erano due notti che facevo lo stesso incubo. Io, la psicologa di Enola, la psicologa di Enola che diventava Enola incolpandomi della sua morte.

Non sono un assassino.

Ripetevo quel mantra più volte al giorno. All'inizio ero certo che si trattasse della verità, ma dopo aver vegliato Enola per due giorni, in quello stato raccapricciante, le mie certezze iniziarono a vacillare. Forse era davvero colpa mia, forse avrei dovuto passare un'altra notte sotto il suo balcone anni prima, forse non avrei dovuto impedire a Milena e Nadia di cacciarmi dalla stanza d'albergo a Barcellona, forse avrei dovuto assecondare la sua richiesta di baciarla in quello scantinato, di fare l'amore con lei su quel divano sudicio. Forse...

I rimorsi iniziarono a corrodermi e a farmi scivolare in un tunnel di follia. Ogni occasione persa era un pugno ben assestato e io non sapevo come difendermi.

Mi ero appena svegliato ed ero indolenzito, con la schiena dolorante per via della scomoda posizione che avevo assunto. La sera prima avevo avvicinato una sedia al letto di Enola, le avevo preso la mano e mi ero addormentato incurvato su di lei come una canna al vento.

Enola aveva gli occhi chiusi, respirava piano e i suoi parametri vitali erano costantemente monitorati. La flebo attaccata al braccio mi incuteva paura, perciò evitavo di guardare quella sacca contenente liquido trasparente.

Enola era in quello stato da due giorni e io per due giorni non avevo abbandonato la stanza di degenza. Due giorni che non mangiavo, che ero vestito allo stesso modo, che le stringevo la mano e le posavo due dita sul polso per percepirne il flebile pulsare. Non mi fidavo delle macchine che le avevano attaccato addosso, dovevo verificare io stesso che fosse ancora lì con me.

Due giorni che confondevo la mattina con la sera, che avevo incubi. Non sapevo se fossero peggio gli orrori che vivevo nel sonno o vederla in quella condizione e non poter fare nulla.

Enola era viva, ma non era sveglia.

Avevo le mani gonfie dal sonno e così i piedi, pronti a spezzare i lacci delle scarpe. Non mi sentivo più le ossa e un formicolio generale mi attraversava, si intensificava in alcune parti del corpo rendendole insensibili.

Baciai la mano di Enola e posai il suo tiepido palmo contro la mia guancia, le raschiai la pelle con la barba che era cresciuta incolta.

Trascinai il palmo sul mio naso e respirai la sua fragranza alla mandorla che lottava per non essere sostituita da quella di disinfettante.

« Buongiorno, amore.» sussurrai contro le sue dita affusolate.

Aspettai che rispondesse, ma Enola non parlò.

Un nodo alla gola mi seviziò e iniziai a piangere silenziosamente.

« Enola, devi svegliarti.» le dissi.

Ma lei continuava ad avere gli occhi chiusi. Ogni suo muscolo era rilassato. Pregai che al contrario il suo cuore continuasse a contrarsi e  pompare sangue. Se il suo cuore si fosse rilassato, il mio si sarebbe atrofizzato.

Mi alzai in piedi storcendo la bocca in una smorfia di fastidio per il torpore generale e mi chinai su Enola. Le lasciai un bacio sulle labbra. Lieve. Non volevo svegliarla. Era stanca e stava dormendo. Da due giorni. Si sarebbe svegliata. Era solo stanca.

« Buongiorno, amore.» ripetei.

Le sistemai i capelli, ignorando come fossero identici alla sera precedente, e a quella prima ancora. Dovevo chiamare un'infermiera, dovevano aiutarla a fare colazione, la flebo non bastava. E aveva bisogno di un caffè, ma quello glielo avrei portato io. Osservai i cinque bicchieri di caffè che avevo posato sul comodino accanto a lei. Non li aveva ancora bevuti.

Ogni attimo rubato ( Ex ANCHE ORA- Il Castello Del Rancore)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora