Diego
L'ascensore si aprì sul corridoio del reparto di terapia intensiva. C'era silenzio, qualche sussurro, intermittenti bip che provenivano da macchinari che non potevo vedere. C'era chi non parlava perché le gravi condizioni fisiche non glielo permettevano. C'era chi non parlava perché non aveva nulla da dire dinanzi alla sofferenza di un caro. C'era chi non parlava perché era stanco di ripetere solo la vita è una merda.
Stanza 335, aveva detto il ragazzo del pronto soccorso.
Ero arrivato. Ero sulla soglia della porta, incapace di varcarla, come se le mie ossa si fossero sgretolate nel corpo, polverizzate. Le gambe di gelatina oscillano, non camminano, e io non potevo camminare. Delle voci provenivano dalla stanza, ma ero troppo distante e non riuscivo a comprenderle. Posai le mani sulle ginocchia, pregandole di darmi la forza di entrare. Contai fino a tre e fui dentro.
Enola era lì, ma non potevo vederla. Un'equipe di personale sanitario circondava il suo letto, per un istante mi illusi che lì sopra non ci fosse lei. Forse Enola era rimasta su quel marciapiede, scomposta, come se avesse appena perso giocando a Twister. La immaginavo ridere, sdraiata a terra, arrabbiata per non essere riuscita a mettere la mano sul tondo verde, la immaginavo in una posizione sconveniente e che arrossiva per una mia battuta in merito.
Sei ancora sul marciapiede, a giocare a Twister...
Ma poi un infermiere si spostò e il sogno svanì. Enola era lì, sul letto, con attaccati al corpo troppi fili per capire in quale dei tanti macchinari che la circondavano andavano a infilarsi.
«Enola.» sussurrai.
Tutti si voltarono nella mia direzione, mi guardarono in un misto di pietà e desiderio di abbracciarmi, era meglio che non ci provassero o li avrei uccisi a mani nude.
« Enola.» dissi più deciso.
L'unica risposta fu un bip.
Un medico con un pronunciato addome e dei disordinati capelli brizzolati, invitò gli altri presenti a uscire dalla stanza.
Lei non si muoveva, l'amore della mia vita era ferma, come una statua. Bella da farmi male, immobile da ammazzarmi.
Vieni qui, Michelangelo, scolpisci lei nel marmo, ne uscirà un capolavoro di disperazione. La mia.
«No...» mugolai.
Rimanemmo io e il medico. Si avvicinò con cautela e mi tese una mano per presentarsi. Non ricambiai la stretta, il suo braccio rimase sospeso nel vuoto per qualche secondo prima di essere ritirato con imbarazzo.
«Sono Leonardo Iavarone, sono l'ematologo della signorina Naggi.» iniziò con tono professionale, ma un attimo dopo la sua umanità straripò, incontenibile.
«Sono l'ematologo di Enola...» disse con voce spezzata «Sono un suo amico.» aggiunse.
Mi domandai quanto fosse corretto per un medico definirsi amico di un paziente. La risposta era una: sbagliato. Ma Enola aveva indubbiamente esercitato il suo potere su di lui, aveva rotto la barriera che separa medico e paziente ignorando le conseguenze; e tra le conseguenze ve ne era una in particolare: quell'uomo stava soffrendo come se avesse perso un figlio.
Enola gli aveva strappato il camice bianco di dosso.
«Lei è?» chiese.
«Il fidanzato.»
«Oh...Non sapevo che Enola avesse un fidanzato.» ammise.
«Sì, sono il suo fidanzato. Il suo. Di Enola.» parlavo in modo sconnesso, e biascicavo e non potevo fare altro se non guardare oltre le spalle di quel medico. C'era lei, ed era ferma. E aveva gli occhi chiusi. E non parlava.
«Come sta?» chiesi con voce strozzata.
L'ematologo si scurì in volto e abbassò lo sguardo.
«Andiamo di là.»
«No! Voglio sapere come sta!» gridai, ma subito dopo portai una mano alla bocca.
Enola stava dormendo e non volevo svegliarla.
«Non può sentirti, tranquillo.» mi rassicurò e si passò una mano nei capelli brizzolati. Era di carnagione olivastra e aveva il volto con alcuni segni lasciati dall'acne di cui forse aveva sofferto in gioventù.
«Perché non può sentirmi?»
Tremai un istante.
«È in coma.» disse tutto d'un fiato.
Calò un silenzio assordante. Lui mi guardava e io anche, ma non lo vedevo. Il classico sguardo perso.
Enola era in coma. Enola.
«Quindi è ancora viva.»
Leonardo inclinò verso il basso un angolo della bocca. Non riusciva a nascondersi dietro una maschera di finta professionalità.
Guarda, Enola, questo fai alle persone, gli fai dimenticare anche le basi di un mestiere.
«Sì, ma è andata in coma da sola. Non glielo abbiamo indotto noi. E per spiegarlo in termini semplici è più grave il fatto che ci sia andata da sola. Il coma farmacologico viene indotto quando i dolori sono insopportabili, preferiamo sedare per non far soffrire il paziente. Con Enola è diverso... È andata in coma da sola... È più grave...»
Per quale cazzo di motivo devi fare tutto da sola, Enola? Perché fai sempre di testa tua? Non potevi aspettare i medici? No, devi sempre decidere tu, coma compreso.
«Quindi può svegliarsi. È in coma, non è morta.» insistei.
«Signor...»
«Diego, chiamami Diego.»
«Diego, sono le fasi terminali della malattia, le ultimissime. Ormai è questione di ore...» prese una pausa per fermare il tremolio nella voce.
«Enola non si sveglierà.»
Guardai nella direzione del letto. Quel corpo esile. Gli occhi chiusi. I respiri lievi, appena udibili. Il bip di un macchinario vicino la finestra.
Lei. Enola. L'unica. Stava dormendo. Era bellissima anche quando sonnecchiava. Mi domandai cosa stesse sognando e sperai che fossero solo cose belle, di incubi già ne avevamo avuti abbastanza. Dovevo fare piano o l'avrei svegliata.
«Shhh.» invitai Leonardo ad abbassare la voce. «Andiamo a parlare di là.»
La mia pazzia era appena iniziata.
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Ogni attimo rubato ( Ex ANCHE ORA- Il Castello Del Rancore)
Chick-LitSei una vigliacca, Enola. È facile così, vero? Fai calare il sipario e poi lasci gli spettatori a graffiarsi il viso per la disperazione. Il loro sangue si mescola al velluto del sipario. Scarlatto su scarlatto. E tu, lì dietro, ridi. Asciughi il su...