Capitolo 3. The meeting night

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"Hai paura?"
"Sì"
"Allora perché sei qui?"
"Io... Io non lo so"
"Tu non hai paura di me invece"
"E lo credi un bene, questo?"  Chiesi, intimorita si, ma non di lui, intimorita della risposta che mi avrebbe dato.
"No. Affatto"
"E perché?"
"Perché io ho paura di te"

"La ragazza stava giusto andando via "
La barista divenne bianca in volto e ritrasse il bicchierino che prima mi aveva offerto.
Strinsi gli occhi e cercando di mantenere la calma e mi schiarii la voce
"Io... Io me ne stavo andando"
Dinanzi a me l'immagine dell'angelo più bello che avessi mai visto prese vita, e si impersonificò in quel ragazzo che, con l'aria di uno duro, cercava di intimorirmi. Non riuscivo a vederlo bene in faccia ma la sua sagoma era così imponente che copriva perfino le luci provenienti dal palco.
Mi fissò per alcuni secondi con la mascella serrata, quasi se la stesse stritolando,poi mi sorrise.
Guardai la cameriera che a sua volta ci stava guardando e tornai a guardare lui, ma mi accorsi che i suoi occhi non guardavano nella mia direzione, capii che quello splendido sorriso era riferito alla ragazza bionda seduta accanto a me. Una bionda elegante e vestita con abiti succinti, seducenti e, a prima vita... molto più grande di lui, le avrei dato trent'anni.
Feci per alzarmi lentamente cercando di non farmi notare mentre si faceva distrarre da un'altra incantevole creatura, ma i miei movimenti goffi lo distrassero e riportarono la sua attenzione su di me.
"Non puoi stare qui senza pass, vattene prima che chiami la sicurezza." grugnì subito dopo averle concesso uno degli sguardi più seducenti che avessi mai visto.
Nel momento in cui una delle tante luci irrequiete gli illuminò gli occhi, lo riconobbi. Il ragazzo scortese che pochi minuti prima avevo urtato. Portava una camicia bianca che, dopo anni di esperienza, ad una prima occhiata, le avrei dato il costo di circa seicento dollari.
Si trattavano veramente bene gli uomini lì. Ed erano questi i piccoli particolari che mi permettevano di definirlo, paradossalmente, un night.
Stessi abiti, stessi sguardi intenditori, stesso odore di soldi e affari. Li conoscevo, io. Era il mio mondo.
Mentre il mio sguardo scostumato bruciava nei suoi occhi con aria di sfida, una voce alle nostre spalle fece riprendere al mio battito cardiaco la giusta velocità.
"India" la voce pronunciò il mio nome con stupore, masticando bene lettera per lettera. Adesso la mia visuale era interamente occupata anche dalla sua figura, una nuova.
"Cosa ci fai qui?" disse quel ragazzo che poche ore prima mi aveva infastidito nella mensa. Guardò me e guardò l'uomo di fronte a me con stupore.
E le parole mancarono tra le mie labbra, non seppi cosa dire, non seppi come rivolgermi a nessuno dei due ragazzi che mi squadravano con un'aria dispotica.
Il ragazzo scostumato, il quale era oramai troppo indaffarato a mangiare con gli occhi la ragazza affianco a me, ci limitò solo un secondo del suo tempo.
"Tieni lontante le tue tipe, Winson. Questa è l'ultima." e se ne andò. Lasciando dietro di sè una scia di seduzione e irresistibile vanità.
Quando poi il quasi non-sconosciuto si sedette accanto a me, l'attenzione della barista ritornò su di noi.
"Vi conoscete?" ed anche quella ragazza era stupita.
Il ragazzo della mensa annuì e lei scosse la testa come se fosse la cosa più ovvia del mondo, quindi tornò a servire ai suoi clienti, senza dedicarci ulteriori attenzioni.
"Che ci fai qui?" Gli domandai mentre si sedeva sullo sgabello di fianco al mio.
"E' la stessa cosa che ti ho appena chiesto io" rise, facendomi sentire stupida.
Oramai dovresti ben saperlo che è da scostumati rispondere ad una domanda con un'altra domanda.
Mentre la musica e il continuo accalcarsi di persone in quel locale aumentavano la mia confusione, provavo a pensare il più veloce possibile ad un piano per scappare da lì, ma troppe domande si ribellavano nella mia mente.
Cos'è la notte dei ritrovi? Cosa ci fa lui qui? Perché non ho scelto di tornare a casa? Dovrei dirglielo che mi sono intrufolata di nascosto? Non di certo. Chi lo conosce.
Cercai di alzarmi dallo sgabello di nuovo ma ero troppo stordita e volevo capire, ero sempre stata così testarda.
Avevo bisogno di capire ogni cosa, anche la più stupida.
Quella sera avevo bisogno di capire cosa ci facesse lì quel ragazzo, vestito in quella maniera elegante, con quella strana espressione.
"No, aspetta!"
Mi fermò mentre il suo dolce sorriso scompariva.
Non me l'avrebbe dovuto dire due volte per farmi restare. Ci sarei rimasta per sempre, lì dentro. Tra quelle luci, quel rosso fiammante ed ipnotizzante, tra le ballerine, la musica e l'odore di alcol e lavanda.
"Va tutto bene?"
Corrucciò le sopracciglia e premette la sua mano sulla mia spalla.
Guardai la sua mano sicura muoversi agile e rimanere lì più del dovuto.
Annuii.
"Che ci fai qui, India?"
Mi chiese di nuovo.
La voce con la quale mi parlò era seducente, e forse un po' capii come mai tutte quelle ragazze a scuola erano matte di lui. Ma solo un po'. Ed era anche diverso rispetto a poche ore prima. Mi aveva rivolto la parola solo una volta a scuola, dopo avermi fissato per un tempo che a me sembrava infinito, non era più cupo. Lui non era lui. Ora mi parlava come se ci fossimo conosciuti tanti anni prima, come se non mi avesse fatto fare la figura della cretina dinanzi a tutti.
"E' una lunga storia, credo" risposi.
"Credi?"
Non risposi.
Mi guardavo le unghie nervosamente picchiettando la punta del piede contro il bancone.
Tornò a sorridere, a squadrarmi,a guardare la barista preparare drink con sicurezza, e a squadrarmi di nuovo.
"Come ci sei arrivata qui?"
"Mi sono persa"
Risposi d'istinto, non dando il tempo alla mia testa di formulare una risposta sensata.
"E quindi hai giustamente deciso di entrare di nascosto in un locale circondato da guardie di sicurezza. Come ci sei riuscita?"
Il suo tono di voce mi infastidì molto, e avrei voluto ribattere che queste tanto famigerate guardie non facevano tanto bene il loro lavoro.
"Chi ti dice che sono entrata di nascosto?" Feci segno con la testa verso l'entrata.
"Be', non credevo frequentassi locali così. Quindi hai il pass?" mi sfidò, ma sapeva già la risposta.
"Tu non mi conosci, come fai a credere già cose su di me. E comunque neanche tu sembri un tipo da questo genere di locali."
Qualunque locale sia.
Sorrise cacciando la fossetta e inclinò la testa, ma non rispose.
Mi piacevano quelle fossette.
No,India.
No, quelle fossette non mi piacevano.
"Hai bevuto?"
Sembravo per caso ubriaca?
"No"
Mi morsi l'interno guancia per evitare di dirgli ciò che avevo appena pensato.
"Jessy portaci due California Mojito, per favore"
Constatai due cose, la prima, il ragazzo era in un qualche stretto rapporto con la cameriera, la quale gli rispose con un occhiolino.
La seconda, con quella ridicola cravatta nera sembrava tutt'altro che ridicolo. Anzi, era davvero carino.
"Non hai risposto alla mia domanda"
Non lo bevvi il Mojito e continuai ad osservarlo mentre a sua volta guardava me.
Anche se il mio organismo mi urlava di introdurre alcol, da ubriaca non sarei mai riuscita a tornare a casa, quindi mi trattenni.
"Mio padre"
"Eh? "
"Il locale è di mio padre."
"Ah" Non seppi che dire.
"Ti piace?"
"È incredibile."
Sorrise a 32 denti e quando mi accorsi della figura da ebete che stavo facendo continuai "Voglio dire, è molto bello"
"Anche tu"
"Ma che dici? "
Mi affogai con la mia saliva e sentii il bisogno di bere quel Mojito per bagnare la mia gola troppo secca.
"Anche tu sei molto bella"
La mia reazione non gli fece una piega.
"E tu sfacciato, lo sai?" Sorrisi sghemba, cercando di nascondere il rossore che colorava le mie guance
"Non di solito."
"Non ci credo."
Ci credo invece.
Diversamente da ciò che avevo appena affermato, quella mattina non mi era sembrato sfacciato tra tutte quelle ragazze, almeno non come i suoi amici che emettevano versi animaleschi. Fastidioso sì,ma non sfacciato.
"Dovresti invece"
"E perché? Non ti conosco, non conosco neanche il tuo nome."
Si finse deluso e sorpreso.
"Come? Tutti conoscono il mio nome"
Alzai un sopracciglio
"Mi chiamo Luke"
Restammo in silenzio. Per quanto silenzio ci potesse essere in un locale pieno zeppo di persone, con una musica assordante.
"Oh mio dio, tu sei il famoso Luke Winson? Sei proprio tu!" Lo presi in giro, e mi ricordai il cognome che aveva pronunciato pochi secondi prima l'altro uomo.
Cercai di diventare quanto più entusiasta possibile e di disegnarmi in volto stupore ed emozione, anche se non lo ero affatto.
"Ti hanno parlato di me, eh?"
"No. Ti sto prendendo in giro" trattenni una risata ma quando vidi che lui invece non ci trovava niente di divertente cercai di rendere il momento meno imbarazzante.
"Non ci trovo niente di divertente."
"Davvero?" e la luce rossa illuminò i suoi profondi occhi azzurri, poi i miei
"Non dovresti prenderti gioco di me, perché io sono parecchio gentile con te" mi fissò intensamente, come aveva fatto a mensa, come se stesse cercando in tutti i modi di guardarmi dentro. Mi rilassai quando capii che non era offeso, ma mi stava prendendo in giro a sua volta.
"Anche io sono particolarmente gentile con te."
Avrei dovuto smetterla di provarci così spudoratamente.
"Bene a sapersi " e sorrise ancora.
Quindi, arrivai ad altre due conclusioni: O aveva una qualche paralisi alle labbra o ero così ridicola che non riusciva a smettere di ridere.
Il mio sguardo era perso su di lui ma non lo stavo guardando davvero.
Pensavo al fatto che tutto quel contatto non avrebbe portato nulla di buono. Perché lo ero davvero, decisa a non legarmi emotivamente a nessuno. Quindi per una frazione di secondi riflettei sul da fare, poi lentamente decisi.
Mi stavo riperdendo e risvegliando dai miei sogni ad occhi aperti.
"Devo andare."
"Aspetta"
Mi alzai di corsa e mi allontanai.
Si alzò e si avvicinò a me. Eravamo solo ad un metro di distanza dal bancone.
Non aveva niente di meglio da fare?
Dei commenti volgari, da parte di alcuni ragazzi che ci circondavano, non mancarono nel momento in cui Luke mi fermò per il polso.
Uno di quei ragazzi, quelli che avevano appena urlato cose tipo "Winson se la spassa bene", lo prese per la spalla e lo fermò per qualche istante e io ne approfittai per farmi spazio tra persone che stavano ancora entrando,superandolo di qualche metro.
Per i successivi dieci secondi, senza un apparente motivo,mi tornò in mente il viso colorato dalle luci gialle e rosse di quel perfetto sconosciuto dal quale Luke mi aveva salvato, ma poi, non appena uscii da quel locale, avevo già dimenticato la sua figura.
Non faceva freddo neanche a quell'ora, qualunque ora fosse.
Ma la mia pelle rabbrividiva. Mi massaggiai il mio braccio che tremava.
Non ricordavo da che lato fossi arrivata, o che strada avrei dovuto prendere per tornare a casa.
Ma sapevo, ero certa, che a casa ci sarei tornata. Non l'avrei abbandonata di nuovo casa mia. Mica me ne andavo di nuovo. No, quella volta ci sarei tornata.
E non avevo neanche paura del buio, ma ritrovarmi in una strada sperduta, in una nuova città, da sola, a qualsiasi ora della sera, non era il modo migliore per concludere una giornata.
Non credevo fosse molto tardi, il sole era calato da poco quando ero entrata in quel locale, ma lì dentro, tra tutte quelle luci, avevo del tutto perso la cognizione del tempo.
Camminai svelta in quella strada buia poi mi sentii chiamare. Di nuovo.
"Che ci fai qui Luke?"
Mi raggiunse con l'affanno. Non l'avevo sentito arrivare.
"Te ne vai da sola?"
"Non vedo dove sia il problema." Continuavo a camminare cercando disperatamente il mio pacchetto di sigarette. Sapevo che l'ultimo pacchetto fosse a casa, ma io le cercavo comunque. Non mi davo vinta. Ne avevo bisogno.
Quando ero nervosa o inquieta cercavo le sigarette. Prendevo il pacchetto in mano e sospiravo.
"Queste strade possono essere molto pericolose." Mi teneva il passo mentre il suo sguardo vagava da una traversa all'altra di quella grande, umida strada.
Lui non aveva idea di cosa fosse realmente il pericolo.
"Riesco a difendermi anche da sola. " Ed era assolutamente vero.
Mi fermò per il polso,di nuovo, e mi guardò fisso negli occhi. Stava cercando di convincermi con la forza del pensiero?
"Ti do un passaggio io" Continuava a parlare mentre i suoi occhi erano fissi nei miei.
"Non accetto caramelle dagli sconosciuti"
"Tecnicamente non siamo sconosciuti e non ti sto offrendo delle caramelle."
Disse mentre liberava la stretta dal polso e metteva le mani nelle tasche del pantalone.
"Va bene."
"Va bene?"
"Sì."
Senza fermarmi camminavo alla ceca.
Non nascondo il fatto che il timore di entrare in macchina con quella nuova conoscenza mi inquietava particolarmente, ma ero pienamente consapevole del fatto che senza di lui non sarei mai riuscita a tornare a casa. O almeno, non prima che fosse sorto il sole.
"Ti piace la musica?" Mi chiese per spezzare la tensione.
La sua macchina era calda e accogliente.
E mi sentii lieta di trovarmi lì dentro piuttosto che morire di freddo (per quanto freddo potesse esserci) da sola, tra le strade della California.
Che poi, chissà se lo sentiva anche lui il freddo, o era solo l'adrenalina che si impossessava del mio corpo.
"A chi non piace la musica?"
Domanda scontata.
"Che genere ascolti?" Insistette.
Lo guardai e lui ricambiò confuso lo sguardo.
"Non so, a me la musica piace e basta"
"A me piace il metal invece" mi parlò tenendo gli occhi fissi sulla strada, avanti a sé. Io invece guardavo lui.
"Il metal?"
"Si, perché ridi?"
"Non sembri tipo da metal"
"Non ti sembravo neanche tipo da locali"
"Si ma, il metal è... rude. Capisci, ti confonde la mente..."
"...E i pensieri, appunto" continuò lui
Sorrisi scuotendo la testa incredula e mi appoggiai al sediolino assaporando la corsa, che proprio corsa non era. Luke guidava proprio come un figlio di papà, uno di quelli che danno nomi alle macchine e le trattano come le donne della propria vita. Rispettava tutti i segnali, guidava sotto i limiti di velocità e quasi accarezzava il manubrio.
"Ci sono certe volte in cui hai bisogno di un suono potente, aggressivo, qualcosa che ti oscuri i pensieri, i problemi... Insomma, capisci?"
Capivo. Capivo benissimo.
"Non so neanche perché ti stia dicendo tutto questo"
Era terribilmente, dolcemente, deliziosamente in imbarazzo.
Io lo guardai ancora e scossi le spalle. Era gradevole sentirlo parlare. Se fosse stato chiunque altro, lo avrei interrotto stanca di sentirlo farfugliare cose di cui non mi fregava niente.
"Perché mi stai fissando? " mi guardò con la punta dell'occhio
"Sei diverso"
"Da chi?" Corrucciò le sopracciglia
Non risposi.
Era diverso da tutti i ragazzi che avevo conosciuto fino a quel momento, diverso dai ragazzi di Chicago, dai miei fratelli, dai figli di papà Californiani. Sapevo che lo era anche lui, un ragazzo viziato a cui la vita aveva dato tutto, ma era comunque diverso.
"Sei una tipa silenziosa"
"Umh, forse" guardai fuori dal finestrino
"Adesso?" Mi chiese quando ci ritrovammo ad un incrocio
"A destra. Non avresti dovuto accompagnarmi, potevo tornare a casa da sola"
"È pericoloso, India."
"Ti preoccupi per me?" Gli stritolai una guancia come faceva Ella, un anziana signora con la quale avevo vissuto per due anni. Mi stritolava le guance e mi accarezzava la testa, questo era il suo modo di esprimere affetto per me e per tutti i bambini che vivevano lì.
"Dovrei?"
"No" misi la mano fuori dal finestrino e tastai il vento che violentemente sbatteva contro il palmo e sfuggiva via tra le dita.
"Secondo me, ti stavi annoiando, per questo te ne sei andato"
Alzò il labbro. Ah. Scoperto.
"Il figlio di papà che scappa dal papà" scossi la testa e questa volta fu lui a non rispondere.
Arrivammo a casa mia prima ancora che la nostra conversazione potesse prendere una qualche piega. Avevo ancora una disperata voglia di chiedergli cosa fosse la Notte dei ritrovi ma la mia voglia di gettarmi sul mio pacchetto di sigarette ancora nuove era più forte.
"Ti ringrazio, sei stato gentile." Mi limitai a dire, assecondando la portiera alla macchina, dopo essere uscita.
"Tutte le volte che vuoi."
Gli diedi le spalle, mi aggiustai i miei lunghissimi capelli oro e mi incamminai verso il portone.
"Posso rivederti?" Urlò insicuro attraverso il finestrino
No.
"Ci vediamo domani mattina Luke, buonanotte"
Assolutamente no. Certo che non ci saremmo potuti rivedere, non in quel senso. Anche se i suoi occhi brillavano di speranza e io gliela spensi tutta d'un fiato. Non potevamo. Perché io ero io. E questa era una giustificazione più che plausibile, almeno per me.
Lo sentii sussurrare qualcosa, ma non mi voltai.
Non mi voltavo mai. Se ne andò così. Senza ricambiare il saluto, se ne andò e basta. Come tutti.

Il mio appartamento era meno accogliente della macchina Luke, e avrei voluto rimanere ancora un altro po' con lui per potermi godere il calore che emanava, la macchina intendo.
In soffitta un riscaldamento non vi era, perché mai sarebbe dovuto esserci? Quale normale cittadino Californiano usa i riscaldamenti con i quaranta gradi che inondano ogni giorno le strade?
Il mio quaderno mi aspettava poggiato sul cuscino assieme alle mie sigarette.
Li raccolsi e contemplai le cose che, fino ad allora, era le più importanti per me.
La notte la trascorsi a scrivere di un inquietudine paradossale rispetto alla calma e alla tranquillità che mi circondavano. Iniziai poi a scrivere:
Le foglie si muovevano assieme ai miei capelli che mi accarezzavano le palpebre,una macchina ogni cinque minuti.
Ventitré in tutto, le mie sigarette.
Dodici, i miei respiri.
E' solo matematica la mia vita, un continuo addizionarsi e sottrarsi di persone che arrivano e se ne vanno, entrano ed escono dalla mia vita... e dalla porta di ingresso. Prima mia madre, poi mio padre e in fine io.
Un tiro. Tre respiri.
E anche questa notte passa così. Tra le mille pagine buttate giù solo a descrivere questo mondo che tanto mi è estraneo, e ad ammirare le luci nelle case degli altri che ti lasciano solo immaginare cosa accade tra quelle mura, quando la notte cala e il silenzio prende il sopravvento.
Il primo giorno di college non è mai stato del tutto facile per nessuno, credo. Almeno non per me. Ma forse domani andrà meglio. Forse domani sarò un po' più forte. Riuscirò a sorridere di più e fumare di meno. Forse domani non avrò più paura.
Forse, chissà.

L'alba del nuovo giorno si preannunciò con una mandria di muratori che, muniti di trapani e motoseghe, iniziarono i lavori di ritrutturazione nella casa due piani più giù.
"Silenzio!" urlai con la faccia schiacciata sul cuscino, ma non avrebbero sentito.
Dopo la quarta sveglia, il mio corpo eseguì il suo solito rituale mattutino.
Mi sedetti sul letto con le gambe incrociate, mi sgranchii le braccia, poggiai solo la punta di un dito a terra per constatare quando freddo fosse il pavimento, e, appena ebbi la certezza che non mi sarei congelata i piedi, mi alzai.
Mi ci vollero due caffè quella mattina per svegliarmi del tutto.
Appoggiai la testa sul tavolo per quanto ero stanca e sorrisi, ripensando alla sera precedente.
Era stato strano entrare in confidenza con un ragazzo che neanche conoscevo fino a ventiquattro ore prima, era proprio una bella casualità, insomma... era tutto partito dalla mia ricerca di un lavoro ed era finito così.
"Cazzo."
Saltai dalla sedia velocemente non appena mi ricordai del lavoro inesistente che a quell'ora avrei dovuto avere, mi catapultai sul letto per mettermi le scarpe e mentre con una mano cercavo di infilarmi i calzini, con l'altra raccoglievo tutti i libri che mi sarebbero serviti.
Ero in ritardo. Avrei dovuto presentarmi presto per fare domanda di un lavoro al college, e se fossi arrivata tardi la fila sarebbe stata immensa, ed io mi rifiutavo categoricamente di passare il resto del mio anno in mensa.
Scesi le scale di casa di due in due, sulla mia destra tre operai già tutti impregnati dal sudore trasportavano scale e attrezzi, e sulla mia sinistra una sfilza di piccole ville costose mi fecero sospirare.
Misi i miei occhiali da sole e respirai aria nuova, fresca aria di un nuovo giorno che avrei affrontato.
Mentre le sveglie del mio cellulare continuavano a suonare e i miei orecchini si incastravano tra i miei lunghi capelli pensai ad un modo per guadagnarmi il lavoro, ovvero sembrare la ragazza più dedita al lavoro, affidabile e servizievole del mondo. Sembrare.
Erano le sette e venticinque, il bus sarebbe passato tra meno di cinque minuti e tutto il mondo attorno a me dormiva ancora.
Accorta che nessuna macchina sarebbe passata decisi di attraversare in trasversale, per fare prima.
Due cose mi sfuggirono quella mattina. Prima cosa, non ero più nelle strade isolate di Chicago. Due, mai attraversare in trasversale.
Perché fu in quel preciso istante che quattro macchine nere lucide mi tagliarono la strada. Caddi a terra per evitare di essere schiacciata dalle loro ruote e per un brevissimo attimo una sfilza infinita di imprecazioni pregarono il mio buonsenso di fuoriuscire.
"Vaffanculo!"
Gridai all'ultima macchina e il ragazzo che guidava sporse il braccio ricoperto di tatuaggi fuori dal finestrino e alzò il dito medio.
Per terra e con la caviglia dolorante, mi massaggiai il gomito e imprecai, quella giornata non era iniziata nel migliore dei modi.

Allora, sono qui con questo bel capitoletto. Cosa ne dite? Ho cercato di aggiornare quanto più presto possibile. Spero davvero che vi piaccia. Mandatemi un messaggino per farmi sapere come vi sembra. Alla prossima. Bacini

Scars - Sotto la mia pelle Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora