<<Vieni con me.>>
<<Dove andiamo?>>
<<In un posto>>
<<Che posto?>>
<<Un posto dove possiamo stare da soli>>
<<Ma qui siamo da soli.>>
<<Dove possiamo essere noi stessi>>Quel dolore lancinante alla testa che mi perseguitava da almeno un'ora diventava sempre più forte, poi mi dava tregua per cinque minuti e quando riprendeva era perfino più fastidioso, si prendeva gioco di me.
Seduta sul tetto del palazzo con le gambe a penzoloni verso il vuoto, tiravo la testa all'indietro. Qualcosa mi tirava dietro, mi afferrava le tempie e me le stringeva forte, le sentivo scoppiare. Quel qualcosa erano i miei pensieri.
Accanto a me, due antenne satellitari rotte e marce, mi tenevano compagnia. Ogni tanto emettevano dei rumori strani, dei grugniti, quasi come quei versi snervanti che uscivano dalla mia bocca quando ero stanca ed avvilita.
Ce n'erano un sacco di antenne lì, quasi quante ce n'erano in tutto il mio quartiere a Chicago. Non tutti potevano permettersi la televisione via cavo dove vivevo prima.
Di solito noi ci arrangiavamo, i più giovani facevano una colletta e si pagavano il canone per qualche mese, i più fortunati riuscivano ad agganciarsi sulla loro linea ed a vivere come parassiti, sulle cose degli altri.
A me non piaceva dividere le cose, piuttosto avrei preferito vivere senza luce e televisione, ma non li spartivo con loro i miei guadagni. Per questo dovevi stare attenta, a guardarti bene dal nascondere ciò che era tuo, ché lì si dividevano anche gli spazzolini. Dovevi guardartele con cura, le tue cose. Dovevi segnare il territorio prima di tutti, prima che fosse troppo tardi.
Anche le macchine si spartivano. C'era una piccola Scoda rossa, era una leggenda, non apparteneva a nessuno eppure era di tutti. Ogni tanto qualche scemo la rubava, credeva di aver fatto l'affare, di aver vinto la macchina del secolo, e dopo un giorno al massimo la macchina non c'era più, se l'erano rubata. E la storia continuava senza fine.Si erano fatte le cinque e quaranta minuti, le macchine sfrecciavano, tornavano nelle loro case, i bambini salivano in gruppetti con zaini colmi di giochi, grandi insegne luminose spiccavano oltre le case, quelle grandi insegne sopra gli hotel, quelli enormi per turisti, che non avevo mai visto prima d'allora.
Scorsi una testolina rosa confondersi con le orchidee e le rose che crescevano sul muretto attorno al palazzo, quello che dava sul cancello principale.
Audrey giocava con i pulsanti del citofono generale, alzava la testa verso tutte le case e poi tornava ad imprecare contro quel povero citofono.
"Audrey! Sono qui!" Le urlai con tutta la voce che avevo, e mi scoppiò ancora di più la testa.
La mia voce le arrivò quasi come un sussurro leggero, si voltò di nuovo.
"Qui sopra, Audrey! In alto!" Le sventolai la mano più in alto possibile.
Quando mi vide sul bordo del cornicione per poco ci rimase secca.
Faceva gesti assurdi con le mani, urlava qualcosa che non riuscivo a capire e si tirava i capelli dalla radice. Avevo capito, credeva volessi suicidarmi. Che grande stronzata, chi ce l'aveva il tempo per uccidersi. Una vita passata a cercare di sopravvivere per poi togliersela? Era assurdo perfino per me.
Scesi dal cornicione e percorsi l'unica rampa di scale che mi separava dal mio rifugio. Il citofono continuava a squillare assordantemente
"Sali, é l'ultimo piano." Che scema, lo sapeva benissimo quale piano fosse, era stata proprio lei a trovarmi quell'appartamento. Poi ero passata a raccogliere tutto il disordine che c'era lì. Ad Audrey non piaceva il casino, quando eravamo piccole si arrabbiava sempre con me, diceva che sarei rimasta seppellita tra quelle cose e non mi avrebbero più trovata.
Presi le mutande, i pacchetti vuoti di sigarette, le buste di cereali, gli accendini, libri, pantofole, carte sporche e buttai tutto nell'armadio a muro che era quasi più piccolo di me.
"Sei impazzita per caso?" Sfondò la porta che avevo lasciato per metà aperta. Aveva le guance tutte rosse, si piegò su se stessa per prendere aria.
"Cosa? Che c'é?"
"Mi hai fatto prendere un colpo, credevo volessi..."
"Buttarmi giù? Cristo no, c'ho da finire ancora tutti gli esami."
Si sedette sul letto tutto disfatto e lentamente si riprese.
"Come sei vestita?"
Avevo ancora i vestiti sporchi ed umidi di poche ore prima, quelli che erano stati a contatto con germi e batteri per quasi un giorno intero.
"Il lavoro da sguattera. Quello lì. Ho dovuto pulire a fondo tutta la confraternita."
"Quindi quest'anno sei stata tu la prescelta?"
"Così pare. Che ci sei venuta a fare qui?"
Non era più tornata Audrey da quando mi aveva affittato quella casa. Avevamo parlato per telefono per due ore intere dopo, anzi lei aveva parlato, e mi aveva raccontato a fondo come avrei dovuto posizionare i mobili, i divani, la scrivania. Perfino un dondolo ci aveva fatto entrare. Ma la verità era che quella stanza e un quarto era rimasta come l'avevo trovata. Con un letto scassato, una cucina minuscola e una scrivania che non li conteneva nemmeno tutti i miei libri.
"Ho parlato con Luke. Dice che ti passa a prendere alle sei"
"Sì, alle sei. Hey perché ci hai parlato?"
Mi ero completamente dimenticata di lui.
"Abbiamo dei corsi insieme. Che c'hai?"
"La testa, mi fa male la testa."
"Che sarà mai, prendi un'aspirina e passa. Dice che sei una tipa ingamba, e gli piaci. Hai fatto una buona impressione su di tutti, o quasi"
"Quasi? Preferisco riposare"
"Sei stata tutta la settimana chiusa qui, ieri sera sei passata per dieci minuti al massimo, e quando é stata l'ultima volta che hai passato del buon tempo con qualcuno?"
Cinque anni fa. Me lo ricordo bene.
"Non lo conosco, Audrey."
"Adesso c'hai vergogna? Da quando sei diventata una fifona?Vi piacete."
Io non c'avevo vergogna e non ero fifona, ma loro non erano come me. Che avevamo da dire noi? Mi sarei sentita solo a disagio. Era facile per lei parlare, se n'era andata, aveva lasciato tutto e si era ricostruita una vita migliore, una che le permetteva le tinture e le unghie sempre a posto.
Luke mi piaceva, tanto, ma mi piaceva come ci si fa piacere quei modelli nella televisione, quelli nelle pubblicità dei profumi che costano tanto. Li guardi e sono un sogno, sai che non c'avrai mai nessun opportunità con loro, che manco li incontrerai mai, ma continui ad ammirarli.
"Te l'ho detto. Non mi piace."
"E chi ti piace allora? Non dirmi ancora che pensi a Cameron Irinson."
Cameron Irinson, il ragazzo irlandese più carino di tutta South Side. Era l'amore platonico di ogni ragazzina di quattordici anni ai miei tempi, e io non facevo eccezione. Avevo perso la testa per lui. Ma d'altronde, era solo la prima cotta, quella che ti porti dentro per sempre, che ti fa ridere se ci pensi, ma che non ti fa più venire le farfalle nello stomaco come un tempo.
"Ma da dove ti esce? Te lo ricordi? Dio, impazzivo per lui."
"Non cambiare argomento"
"Posso farti una domanda?"
"Me la farai comunque "
Feci mezzo giro attorno al tavolo e mi sedetti su uno sgabello, incrociai le gambe, e iniziai a limarmi le unghie cortissime.
"Justin... Bieber" scandii il cognome quando sembrò non collegare il nome al ragazzo che mi aveva dato un passaggio poco tempo prima
"È... È..." pensai al termine più adatto per descriverlo "...strano" ed effettivamente suonava come una domanda
"Lui é un caso a parte, ha tutti dei suoi affari per la testa. E poi, se ci stai pensando, gli piacciono quelle più grandi, quelle che frequentano brutti giri."
"Brutti giri?"
"Così si dice. Prostitute credo."
"Un ragazzo come lui va a prostitute?"
Justin era bello da far perdere la testa. Aveva il naso di una perfezione geometrica, le labbra grandi, quasi come se fossero rifatte. I suoi occhi, la sera che ci eravamo conosciuti, erano di un colore intenso, uno di quelli che ti fanno mancare l'aria, ma non avevo capito bene tutte le sue sfumature, non potevo mica fissarlo tutto il tempo. I capelli oscillavano tra l'essere biondi come il brodo e castani come il caramello. I suoi lineamenti erano ancora quelli di un bambino, un ragazzino cresciuto, i suoi muscoli sembravano alcune volte stonare in quel corpo ancora in crescita. Proprio l'esatto opposto di Luke.
"Io non l'ho mai visto con nessuna. Sicuro come la morte che se ne porta a letto tante, e al campus poi si sentono bestemmie per mesi, di ragazze rifiutate o scaricate troppo presto. Però io non l'ho mai visto, credo che non l'abbia visto nessuno." Mi disse Audrey
"Che vuoi dire? E tutti quei ragazzi lì che frequenta, non ne sanno niente?"
"Beh, credo di sì. Non lo so. Loro non parlano molto delle faccende di Justin."
"E Beatrice e Justin?"
"Ma quante domanda che mi fai, India. Quasi mi fai pensare che ti interessi, se solo non avessi quell'espressione orrenda sulla faccia."
"Diciamo che non é il mio tipo."
"Forse lo é più di quanto pensi, solo non é il ragazzo che cerchi al momento, ti capisco."
Ma in realtà no, lei non capiva niente, non sapeva niente.
Non conoscevo Justin, non lo so sapevo mica che tipo era, non ero partita prevenuta, come fanno tutti.
Non avevo mai avuto niente da spartire con lui, e non avevamo alcun rapporto, ma i suoi modi di fare non mi davano sicurezza, quindi mi limitavo a fidarmi del mio sesto senso che mi diceva chiaramente di fare sempre un passo indietro quando c'era lui.
"Quindi è un si, stanno insieme"
Perché tutte quelle cose le chiedevo a lei non lo sapevo.
Avrei potuto fargliele a Justin in persona, qualche ora prima. Il coraggio non mi sarebbe mancato, visto che lui la spudoratezza di attraversarmi con le sue domande offensive l'aveva avuta.
Cercavo di capire fino a che punto i giudizi altrui arrivavano, buoni e cattivi, quelli visti da lontananza. Quelli di chi non lo conosceva, come Audrey.
Persone che parlavano senza sapere, le voci poi scorrevano e d'un tratto il fiume di parole inondava ogni strada.
"Cazzo é tardissimo. Ne parliamo dopo, ti prego vatti a preparare,farai tardi."
Sbattei la porta del bagno, come sempre, contraddire Audrey era un'impresa ardua e quasi impossibile, e poi, ripensandoci a fondo, ne avevo bisogno di uscire e prendere aria.
"Che devo mettere?" Le urlai dal bagno mentre mi sciacquavo la faccia.
"Ora cerco qualcosa, aspetta!"
"Non aprire l'arm.." Corsi fuori ma ormai aveva già aperto l'armadio.
Un cumulo di immondizia e panni sporchi le cadde addosso ed emise un gemito di disgusto.
"India, levami queste cose di dosso"
L'aiutai a liberarsi capendo che avevo toccato il fondo.
"Non dire niente, ok? Non emettere neanche un suono."
Si avvicinò a me e mi puntò un dito contro rimproverandomi come sua mamma quando eravamo piccole. Come quando combinavamo dei casini e venivamo richiamate, me compresa, come se fossi sua figlia.
Feci il gesto di cucirmi le labbra e mi sedetti sul letto pieno di roba
"Metti... Vediamo... Questo"
La prima cosa che ricevetti gettata addosso fu una lunga camicia bianca assieme ad una grande cintura di pelle nera
"È troppo corta, non posso mica mettere solo questo."
"Quante storie che fai." E in fine una gonna nera, quasi una minigonna.
"Audrey?"
"Eh."
"Ma che dovrei dire? Intendo più tardi, con Luke"
Audrey, che stava piegando le mie magliette, si fermò e fece un profondo respiro. Si avvicinò a me e mi accarezzò il viso
"Sii te stessa. Se ti invade con troppe domande, o non ti senti a tuo agio, dici che non ti senti bene e ti fai riportare qui. Ma stai tranquilla, è un gentiluomo, è una bravissima persona, tutti quei ragazzi lo sono"
Tutti?
"A me non piace Justin, ma forse mi sbaglio."
"Ti vorrei dire che ti stai sbagliando, ma neanche io lo conosco bene, ci siamo conosciuti quest'estate qui."
"Si é trasferito?"
"Macché! Però gli altri anni non lo si vedeva quasi mai in giro, io non mi fido delle voci, ma non sono proprio chiacchiere positive, eh."
"Che vuoi dire?"
"Non lo so, continuo a non sapere niente. E fai presto, lavati, sarà qui a momenti"
"Non va scuola?"
"Ma Justin? Non c'ha la nostra età, forse ventitre, ventiquattro, che ci va a fare a scuola con tutti i soldi che ha?"
"Ah,quindi lavora?"
"Qualcosa mi dice che ti interessa parecchio questo ragazzo."
"Non essere stupida, sto chiedendo per ammazzare il tempo."
Le domande mi passavano per la mente e poi uscivano per la mia bocca senza che riuscissi a controllarle. Anche se una grande curiosità riguardo tutti gli altri mi teneva i pensieri completamente impegnati, c'era qualcosa, qualcosa che non riuscivo a capire, che mi spingeva ad approfondire, a non lasciar perdere quella storia.
Il clacson bussò prima che riuscissi a colorarmi le labbra di rosa. Sussultai. Corsi in bagno a prendere un lucida labbra, dei soldi nascosti dietro al gabinetto, e lei, l'unica cosa che mi faceva sentire al sicuro. La nascosi sotto la fascia che portavo sotto la gonna, avvolta attorno alla mia pancia, me la conficcai nelle viscere.
Avevo sempre camminato al suo fianco, l'avevo impugnata tante volte, tutto pur di difendermi, per non essere ferita. Quando in realtà le ferite più grandi me l'ero procurate da sola. Mi ero puntata contro quella pistola troppe volte, l'avevo puntata contro la mia immagine riflessa nello specchio, i proiettili si erano insediati in me, avevano viaggiato nella mia carne, come se fossi stata io il vero nemico da cui nascondermi. Avevo premuto il grilletto contro le mie tempie. Pur di non ferire chi invece, mi trafiggeva con proiettili più velenosi, pur di non guardare in faccia la realtà. Scappavo da me stessa, non dal luogo che mi distruggeva. Graffiavo la mia di pelle, non quell di colui che mi aveva lentamente prosciugata, e sparato più volte con i colpi mortali delle sue parole. Mi portavo appresso una pistola, come se avessi potuto difendermi anche dalle parole, quelle vomitate per terra con disperazione, che ti uccidevano più velocemente di un colpo al cuore.
"Sei bellissima"
"E stanca"
Mi aprì lo sportello quando mi accostai alla macchina
"Non devi aprirmi la portiera ogni volta, lo sai?"
"Mi va di farlo"
"Ma da piccolo mangiavi pane e buone maniere?"
"In un certo senso"
"Prima o poi ti stancherai di farmi da tassista"
"Ti avvertirò quando accadrà "
"Spero presto"
"Non ti piace la mia macchina? Ne ho altre due"
"Non sbattermi in faccia i tuoi soldi, figlio di papà"
"Certe volte non capisco se scherzi o no"
"Se te lo dicessi, che sfizio ci sarebbe?"
Mise in moto e sfrecciò lontano da casa
Guardai i lividi attorno all'occhio che erano diventati più chiari, meno aggressivi.
"Cosa c'è?"
"Niente"
Arrossì, ma feci finta di non accorgermene. Il pensiero che stesse arrossendo per me mi paralizzò le parole. Nessuno mai era arrossito per me, tantomeno la mia pelle aveva acquisito mai quel colorito per qualcuno.
"Dove mi porti?"
"Stai per goderti la migliore visita di San Diego che un visitatore possa desiderare"
"Questo lascia dirlo a me"
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Scars - Sotto la mia pelle
Fanfic"Hai paura, stai tremando." mi accarezzò la guancia con il pollice "Non ho paura." "Allora smetti di tremare. " "Non tremo." Tremavo. Il mio petto si alzava e si abbassava così velocemente. Ero sicura mi si sarebbe aperto un buco in petto da un mome...