1~Moon

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Gli alberi della foresta svettavano, alti e diritti, eppure non impettiti. Il tiepido venticello primaverile scuoteva con delicatezza le piante più giovani, mentre le verdi foglie che dipingevano la foresta di nuovo colore, dopo la tavola bianca ed innevata dell'inverno, si univano in una silenziosa armonia di fruscii delicati.
Il sole brillava di gioia alla vista di tanta bellezza e allungava i suoi placidi raggi, tentando di raggiungere ed accarezzare ogni millimetro di quel mondo appena rinato.
La luce trafiggeva la foglioline, rendendole spettacolari. Eppure l'erbetta fresca fresca sotto di loro non veniva sfiorata dal caldo tepore del disco solare. Ancora la rugiada indugiava sugli steli verde speranza.
La terra, umida e piacevolmente fredda, pareva il manto d'un animale pezzato, dipinto d'oro ovunque la mano del sole riusciva ad intrufolarsi.
Il cielo, quasi facendo a gara con la solida pietra, si presentava macchiato di bianco: nuvole leggiadre, lente e colossali, accerchiate da più piccole sorelle sfuggenti, decoravano la volta zaffirea.
Solo un'anima girava, silenziosa e sfuggente, attraverso quel paradiso. Totalmente a proprio agio, quasi fosse stata parte stessa del regno magico degli oggetti inanimati, spesso più potenti di qualsiasi cuore mortale.
La sfrontata avventuriera era una piccola gatta. Camminava con leggera grazia sul terriccio lasciando impronte delicate, appena visibili. I suoi polpastrelli rosei e morbidi si beavano della morbidezza delle zolle e godevano del solletico procurato dall'erba. Le sue quattro zampe candide come le nuvole acquattate nel cielo erano, contrariamente a ciò che ci si poteva aspettare in quel mondo di tranquillità, tese, pronte a scattare, quasi senza l'assenso della mente sfuggente che le guidava.
Il pelo morbido era stato pulito dall'acquazzone scoppiato durante la notte: tutta la sporcizia, la fatica, il fango, la tristezza, erano scivolati lontano senza farsi sentire, coperti dallo sciabordio del mondo che si lavava via.
Le cicale frinivano senza sosta.
La gatta mosse le grandi orecchie-corteccia-d'albero, che la luce abbracciava, seguendone la curva gentile e delineandone il contorno deciso, alla ricerca di qualunque suono potesse far intendere la presenza di piccoli animaletti nella zona. In risposta solo il sibilo del vento, che scosse appena la peluria castana sulla schiena scaldata dal sole del felino. L'animale alzò il muso su cui era stata stesa una pennellata di vernice castana sino al nasino rosa, proteso in alto, abbinato al cauto rossore della bocca aperta, pronta ad aiutare nella ricerca di prede.
Un fugace profumo portato dal vento fu messaggero di morte e di vita: un topino saltellava poco più avanti.
I denti lunghi ed appuntiti della gatta si mostrarono da dietro le labbra tirate in un sorriso, liberatore quanto un sospiro di sollievo.
Il felino s'abbassò sino a che la sua magra pancia bianca non sfiorò il terreno, sporcandosi sulla terra bagnata. Le costole dell'animale erano ben visibili mentre si dondolava piano piano, passo dopo passo, sempre più vicina alla preda che ancora non era riuscita a scorgere fra le rigogliose felci.
La coda lunga e pelosa ebbe un guizzo: la luce seguì quel movimento repentino, così che per un momento la si poté distinguere dall'ombra caduta sopra di lei, nella sua silenziosa ricerca.
Gli occhi smeraldini erano ora fissati su un unico, minuscolo, punto grigio. Il riflesso del manto del topo sul verde pino degli occhi dalla pupilla affilata, -più slavato sui lati e via via sempre più acceso al centro seppur intramezzato da scheggie di un colore assai più cupo e oscuro-, riportava, come un crudele dipinto del destino, la situazione della creaturina ignara, ormai intrappolata dalla cacciatrice.
La bestiola fece appena in tempo a scrutare fra le ombre il nemico e ad accendere di totale terrore i suoi occhietti neri e quasi inespressivi, che la gatta gli balzò addosso.
Una macchia di luce illuminava la scena dell'assassinio mentre il felino spiccava il salto. Una freccia di sole le attraversò l'intera spina dorsale in un istante: la sua punta affilata si rivelò essere il sangue del topo.
La gatta osservò soddisfatta la sua opera: quel corpicino straziato dagli artigli appena ritratti, ancora caldo e invitante. Per essere un topo era bello paciuto e la cacciatrice si leccò i lunghi baffi, scrollando la testa.
Allungò le zampe anteriori e si stiracchiò aprendo la bocca in uno sbadiglio soddisfatto. Strinse la preda fra le fauci.
Alcune gocce rossastre fuggirono dal corpo e s'allungarono fino a impregnare il foulard grigio e strappato, distrutto ma sempre stretto saldamente al collo della gatta, che fungeva da suo segno distintivo.
Il sangue rosso le colava in bocca, invitante, mentre lei trasportava il cadavere con sacrale attenzione, in un atto di protezione, dalla zona di caccia alla ricerca di un buon posto dove mangiare senza disturbi.
Il sole, quasi non avesse visto nulla, continuò a proteggere quell'angolo di bosco dove le foglie, più rade, lo lasciavano passare. Le felci si beavano nel torpore del pomeriggio, le foglie intarsiate di dorati ricami. Le foglie erano sempre trapassate dalla luce mentre la gatta diveniva sempre più invisibile fra l'intrico di rami e fiori.
Solo un rivolo rosso, placido nel suo corso e acceso da un manto d'oro, rimase come ricordo della gatta cacciatrice.
Il nero liquido, implacabile e tranquillo, sporcò un lungo tratto di erbetta vergine, prima di seccarsi.
Il sangue.
Un impronta purpurea sugli steli più giovani.
Il solo ed unico segno del passaggio di Moon.

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