11. Promesse infrante

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E' passato un mese da quella strana serata e, come promesso dal misterioso sconosciuto, né io né Anita abbiamo più avuto notizie di Vargas o di quel postaccio che gestisce. I primi giorni ho continuato a pensare a lui e ai suoi occhi neri ma neppure la mia amica è stata in grado di dirmi chi potesse essere e, dopo qualche notte popolata da sogni su di lui, il ricordo del suo volto ha iniziato a sbiadire e mi sono convinta di essermi immaginata ogni cosa. Ritorno a casa stavolta e mi lancio sul divano con un gemito di sollievo. Sono stanca e sudata a causa del caldo torrido che i venti provenienti dal monte El Ávila hanno fatto calare sulla città. La porta della stanza di Anita si spalanca e lei entra nel soggiornino saltellando.
«Sei tornata!» strilla buttandomisi addosso. «Mi annoiavo così tanto.»
«Niente lavoro oggi?» chiedo districandomi dalla morsa del suo abbraccio e guardando il suo abbigliamento da casa.
«No. I bambini sono dal pediatra con la mamma. Perché una mamma dottoressa porta i proprio figli dal pediatra? Non può occuparsene lei?»
Sorrido dei suoi ragionamenti e scuoto la testa. «Forse perché la suddetta "mamma medico" è specializzata in traumatologia e non in pediatria?»
«Io mi occuperei dei miei figli.»
«Tu non sai di cosa parli perché non sei un medico.» le dico accarezzandole i capelli.
«Comunque sia... li porto una settimana al mare, partiamo domattina.»
«Come?» mi stupisco.
«Hanno una casa a Los Cocos e la madre mi ha chiesto di andare con loro una settimana, per tenere i bambini.»
«Oh...» mormoro e mi sento improvvisamente triste a rimanere da sola così a lungo. Anita e io non siamo mai state separate da quando siamo uscite dal Barrio, dieci anni fa. Lei si accorge della mia espressione e mi prende la mano con affetto.
«Ma se tu non vuoi, le dico che non potrò andare. Posso farlo, non voglio lasciarti sola.»
Scrollo la testa e le stringo la mano con forza. «Non essere sciocca, devi andare. Ti pagheranno e ti godrai un po' di mare, te lo meriti dopo tutto ciò che è successo.»
«Si, ma sono stata terribilmente egoista a non pensare che ti avrei lasciata sola. Ora, davvero, rimango.»
«No, davvero... tu vai.» le ordino con un sorriso deciso. «E' solo una settimana e io starò bene. Inoltre, non puoi rifiutare, è il tuo lavoro.»
«E se succedesse qualcosa?»
«Ani, non succederà nulla. Ricordi cosa mi ha detto quell'uomo? Che nessuno ci avrebbe più disturbato, e ha mantenuto la parola. E' trascorso un mese.»
Alla fine riesco a convincerla e la mattina dopo, di buonora parte. Io mi concedo di dormire un po' più a lungo dato che è domenica e non lavoro, inoltre ho necessità di recuperare le energie perché ieri è stata una giornata folle, conclusasi con l'affido alla coppia americana del piccolo Gustavo Gutierrez che da oggi è ufficialmente in prova per sei mesi con i nuovi genitori affidatari. Se il periodo andrà bene, potranno averlo in adozione. Vedere gli occhi luccicanti dei neo genitori e quelli eccitati del bambino mi hanno ripagato di qualunque sforzo mentale fatto in questa faccenda ma il mio corpo ha bisogno di riposare. A pranzo mangio velocemente un po' di insalata di tonno e avocado, poi mi butto sul letto e mi addormento davanti al televisore in totale relax, il ronzio del ventilatore a cullarmi dolcemente. Dopo un tempo indefinito sento dei robusti colpi alla porta d'ingresso e mi riscuoto di scatto, tirandomi a sedere e cercando di riprendere la cognizione spazio-temporale. Quando il bussare si ripete, mi alzo e corro all'ingresso, guardando fuori dall'occhiello e trasalisco vedendo la stessa guardia che mi aveva accolto al Gran Meliá. Mi sposto di botto e mi appoggio con la schiena contro la porta premendomi una mano sul torace.
Cosa ci fa qui? Che cosa vuole? L'uomo misterioso è con lui?
Cazzo.
Decido di rimanere in silenzio e sperare che se ne vada ma il silenzio viene interrotto pochi secondi dopo. «Signorina Villalba, so che è lì dietro. Posso sentirla respirare.» dice raggelandomi. «Apra, la prego. Non voglio dover buttare giù la porta.»
Deglutisco e mi guardo attorno alla ricerca di una scappatoia ma non ne trovo alcuna e non mi rimane che rispondere. «Cosa vuole?» chiedo a voce alta e quasi prego che non risponda.
«Apra la porta.»
«No.»
«Okay, sarò costretto a scardinarla.»
«No!» strillo spaventata. Non ho il denaro per riparare un danno del genere. Mi affretto ad aprire e me lo trovo davanti, alto, grosso e vestito di nero come il mese precedente. «Cosa ci fa qui?» lo aggredisco.
«Devo portarla in albergo. Ora.»
«Perché?» chiedo con un gemito che ha il sapore della disperazione. Sono così stanca di questa storia, mi ero illusa che fosse finita.
«Perché il mio capo mi ha detto di farlo.»
«Aveva promesso che niente mi avrebbe più disturbato, neppure lui.»
«Lo sa per cosa sono fatte le promesse, no?»

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