20. Stanata

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Appena girato l'angolo dell'edificio di vetro comincio a correre come una forsennata, facendo lo slalom tra i passanti che vengono nella direzione opposta e grondando sudore sotto al sole di luglio.

Non ho alcuna intenzione di fermarmi.

Arriverò a casa, lascerò un biglietto per Anita e metterò qualche indumento in un borsone. Poi sparirò. Mi addolora l'idea di lasciarla così, di non avere neppure la possibilità di spiegarle cosa sta succedendo e di dirle addio. E so già che si sentirà in colpa, penserà che sono costretta a scappare per causa sua e si dispererà per questo, ma non posso farci niente. Devo salvare me stessa e devo salvare lei.

E questo è il solo modo che conosco.

Non ho denaro con me quindi non posso prendere un taxi. Raggiungere il mio appartamento con i mezzi pubblici mi fa perdere quasi un'ora, purtroppo non ho altre opzioni e quando sono nella strada di casa mi guardo nervosamente attorno finché non mi convinco che tutto è tranquillo. Entro nell'appartamento senza esitare e prendo qualche capo d'abbigliamento essenziale, liberandomi dei vestiti che indosso e infilando un paio di jeans e una canotta nera, poi scarabocchio delle spiegazioni ad Anita che risultino il meno drammatico possibile e schizzo fuori. Non mi guardo indietro per lasciarmi andare a ricordi sentimentali. Non che lasciare questa casa mi causi chissà quali turbamenti, è il mero legame emotivo a rattristarmi ma adesso non ho davvero tempo. Quando sarò al sicuro, lontana da questa città, avrò tutto il tempo per disperarmi.

Corro giù per le scale fatiscenti e mi lancio in strada, riflettendo sul fatto che devo andare a prelevare del denaro - per fortuna avevo lasciato la carta di credito a casa quando sono stata prelevata e ora ho potuto riprenderla – e prendere un treno che mi porti sulla costa. Ho deciso che andrò a nord, potrei raggiungere Maiquetìa facilmente e nei prossimi giorni spingermi verso Maracaibo. Se riesco a raggiungere quest'ultima, non potranno più trovarmi e sarò al sicuro.

E un cellulare. Ho bisogno di comprare un cellulare e una scheda telefonica, per fortuna conosco i numeri di Anita e dell'ufficio a memoria, sono gli unici che mi servono per avvisare che non sono morta. Certo dovrò utilizzarli con attenzione, di sicuro potrei essere rintracciata e...

Troppo presa dalle mie organizzazioni logistiche non mi sono accorta di dove andavo e sono finita dritta addosso a qualcuno. E inconsciamente so di chi si tratta. Riapro gli occhi che avevo serrato nell'impatto e incrocio il suo sguardo nero.

Nero e furioso.

«Stai andando da qualche parte, dolcezza? Sembri di fretta.» dice con tono di scherno e a me si mozza il respiro.

«Sebastian.» ansimo.

«Già. Sebastian.» ringhia e sembra molto, molto arrabbiato.

«Io...»

«Ti conviene non dire una maledetta parola o diventerò tutto ciò che mi accusi di essere da quando ci siamo incontrati.»

Mi afferra dai capelli e sento un dolore improvviso alla cute mentre mi trascina dall'altro lato della strada, incurante dello sguardo incuriosito di un paio di barboni che ridacchiano, ubriachi.

«Mi fai male...» piagnucolo piegando la testa in avanti per alleviare la morsa delle sue dita.

«Non hai ancora visto niente.» ribatte e la sua voce sembra quella di un assassino. Si ferma davanti ad una moto di grossa cilindrata e mi lascia andare con uno strattone con il solo obiettivo di infilarmi un casco integrale nero per poi salire e mettere in moto. «Sali.» ordina ma io rimango immobile, terrorizzata. «Sali su questa cazzo di moto, Soave!» urla e io sussulto mentre le lacrime cominciano a rigarmi le guance. Ringrazio il cielo che lui non possa vederle e salgo a fatica alle sue spalle, cercando di non toccarlo, impresa resa impossibile dai minuscoli sedili. Non appena sono seduta dà gas e, quando la moto scatta in avanti, per poco non vengo sbalzata a terra. Mio malgrado sono obbligata a cingergli i fianchi e a stringermi contro la t-shirt nera che indossa e che è impregnata del suo profumo.

Ha sempre un ottimo profumo.

Serro gli occhi per scacciare la paura della velocità, dell'avvenire e di quel pensiero fastidioso che mi è salito alla mente e resto così, rigida e stretta a lui finché la moto non si ferma con uno stridio di gomme. Ci metto qualche secondo a realizzare che posso staccarmi e quando lo faccio e riapro gli occhi mi accorgo che siamo di nuovo sotto al grattacielo di Avenida Venezuela.

Tutta la mia fuga è stata inutile ed è durata meno di un battito di ciglia.

SoaveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora