Capitolo 2 - Serena

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Chiusi la porta del bagno dietro di me e presi lo zaino che avevo poggiato accanto al mio letto. Ripassai a mente tutto ciò che non dovevo scordare e controllai che ci fosse tutto. Presi la chiave dal comodino, era difficile dimenticarla: aveva una medaglietta rossa col nome dell'hotel molto vistosa attaccata all'anello che le teneva insieme. Uscii dalla stanza e con la felicità che mi affiorava sulla pelle mi diressi verso l'ascensore. Passai dalla reception e chiesi delle informazioni per andare in centro; avevo già impostato il GPS ma per essere sicura continuai a chiedere indicazioni stradali durante tutto il tragitto. Impiegai circa venti minuti, non avevo fretta: non volevo perdere tempo ma neanche passarlo con l'ansia di dover arrivare prima possibile da qualche parte.

Mentre camminavo osservavo come la città cambiasse radicalmente. Avevo visto enormi caseggiati e palazzi oggettivamente poco eleganti appena fuori dalla Milano che tanto affascinava anche me; industrie e prefabbricati sempre più lontani lasciavano spazio a dei prospetti visivamente allettanti. Le strade si facevano più pulite e iniziavo a vedere alcuni turisti con macchina fotografica al collo e sguardo rivolto verso l'alto nel tentativo di non farsi sfuggire nulla. Io seguivo i loro occhi, come una stupida.

Alberto diceva sempre che avevo un sorriso stupido, che lo faceva ridere; il mio pensiero per qualche attimo si spostò a lui; cercai con estrema difficoltà di non mandargli messaggi per tutta la mattinata perché aveva interrogazione di greco e sapevo cosa volesse dire: ore ed ore di ripasso per un sette quasi stentato; odiavamo il nostro professore e lui sembrava ricambiare.

Erano passate diverse ore dalla colazione e iniziavo ad avere fame, inoltre con le mie 'grandi' capacità di orientamento pensavo di essermi diretta dalla parte opposta al centro e quindi decisi di fermarmi al primo bar in vista. Quando entrai e ordinai un gelato alla nocciola fui invasa da un accento stranissimo che aveva provocato in me un forte risentimento per il mio. Fino ad allora non pensavo di avere un particolare modo di scandire accenti e parole ma quando iniziai ad origliare le persone del posto sedute ai tavolini dimenticai anche come parlare. Il locale era piccolino e non molto illuminato e decisi di uscire fuori.

Girai l'angolo e lessi un'insegna: Duomo di Milano. Camminai più in fretta e mi imbattei in un altro bar. Guardai una targa esposta fuori con orgoglio che diceva 'Gelateria di Milano 2013' e pensai di essere stata un idiota ad essermi fermata appena cento, forse cinquanta, metri prima per un gelato alla nocciola che non sapeva affatto di nocciola. Feci finta di niente e passai oltre, ruotai la testa verso destra mentre finivo di digerire la mia sfortuna e davanti a me vidi il Duomo. Avevo la lingua di fuori e rimasi così per un bel po', a giudicare dagli sguardi perplessi dei passanti. Era qualcosa di spettacolare e non capivo come tutti quegli uomini in giacca e cravatta sempre di fretta non potessero trovare anche cinque secondi della loro deprimente giornata per restare incantati da quel monumento meraviglioso. Mi avvicinai di più verso il centro della piazza cercando di non calpestare scarpe appena lustrate e piccioni temerari. Tenni lo sguardo fisso avanti e non mi accorsi che il gelato si stava sciogliendo. Risi da sola all'idea di guardarmi mentre sembravo non avere tutte le rotelle al loro posto, cercando di di tenere in salvo il mio gelato dalla folle velocità della Piazza.

Ma chi se ne frega del mio gelato alla non nocciola, pensai tra me e me.

Lo finii in fretta per non avere nulla da dover tenere in mano, anche spaventata dall'idea che potesse scolarmi a dosso e mi avvicinai verso i gradini del Duomo. A destra notai una fila interminabile di turisti a cui evidentemente non bastava la vista da fuori: non li biasimavo più di tanto, ero curiosa anch'io ma non avevo voglia di aspettare. A sinistra invece diedi un occhiata alla gente che saliva le scale per uscire dalla metropolitana. Molti di loro non guardavano a terra per evitare di inciampare, ma soltanto in alto alla ricerca di quel monumento, come se fosse potuto scappare. Salii i gradini e alzai la testa per riuscire ad osservare le statue più in alto, poi toccai una porta decorata con bassorilievi. Quando guardai l'immensità di quella piazza e delle persone che c'erano rimasi sconvolta. Notai anche la Galleria che, non molto a lungo, rimase in secondo piano per importanza.

Presi il cellulare e scattai tutte le foto che potevo: mi sembravano una più bella dell'altra; nel frattempo guardai l'orario, erano passate da poco le dodici quindi mandai un messaggio a mio padre come aveva chiesto; lo avrei visto tra un'ora e io avevo il tempo di godermi quella giornata, prenotare un tavolo per due in un ristorante non troppo costoso e scrivere qualcosa. Da qualche mese tenevo un quadernetto dove scrivevo una storia, pensavo che avrei finito le idee e la voglia di occuparmene dopo pochi giorni, invece era ancora lì e avevo migliaia di idee per la testa. Scrivevo di me e di Alberto e di quello che avrei voluto dirgli tante volte ma che non avevo avuto il coraggio di dirgli. Se un giorno fossi riuscita a terminare il mio libro glielo avrei fatto leggere e avrebbe capito. In fondo pensavo e speravo che anche lui provasse qualcosa di più per me, ma per il momento eravamo felici e mi bastava così.

Avevo sempre amato leggere, fin da quando mio padre mi raccontava le favole della buona notte prima di andare a dormire. Quando imparai iniziai a leggermele da sola, o almeno provavo. Una volta mio padre mi trovò nel suo studio a leggere Guerra e Pace, ovviamente non capivo nulla di ciò che a malapena riuscivo a pronunciare ma lui disse con un sorriso che avevo avuto almeno il coraggio di aprire un libro tanto grande e la forza, letteralmente, di prenderlo. Poi mi confessò che neanche lui lo aveva mai finito e quasi per paura di sembrare più ambiziosa di lui accettai di farmi comprare qualche altro libro. Divoravo pagina su pagina, qualunque fosse la storia; infatti nel paese dove abitavo non c'erano librerie o biblioteche dove poter prendere qualcosa da leggere, ma soltanto il reparto 'nuovi arrivi' nella bottega della piazza e raramente avevo la fortuna di trovare quello che volevo. Potevo avere due chance: prendere quello che  sembrava più appetibile alla lettura oppure prenotarne uno in particolare e aspettare intere settimane; io ovviamente non ero fatta per le lunghe attese. Quando, qualche mese prima di arrivare a Milano, finii di divorare l'unico immenso capolavoro di Kathryn Stockett capii che non mi bastava  più leggere, volevo scrivere.

Dunque mi ritrovai lì, su un gradino affollato di Piazza Duomo con penna e quaderno in mano. Cercavo di non dare troppo all'occhio ma era inevitabile che la gente si voltasse verso di me cercando di capire se stessi annotando qualcosa  o se fossi una di quelle artiste di strada che arrivano in un posto e iniziano a dipingere senza farsi troppi scrupoli. Dopo le prime due pagine mi immersi nella scrittura e non badai più né alla confusione né al brusio continuo. La mia penna sembrava muoversi da sola tra le righe del mio quaderno con una piccola sosta ogni volta che dovevo portare dietro l'orecchio un ciuffo ribelle.

Stetti lì per molto e non guardai neanche l'orario fino a quando una piccola vibrazione della tasca destra dei miei jeans mi fece quasi sobbalzare. Per un attimo non capii neanche cosa stesse succedendo, poi ritornai in me e presi il cellulare mettendo la penna in mezzo al mio libro e poggiandolo accanto al mio zaino. Era mio padre che mi scriveva.

Ciao Serena sono ancora a lavoro

prenota un tavolo per tre persone...

ho incontrato un imprenditore

di queste parti. Tu, come va?

Guardai l'orario in alto, era l'una meno un quarto e io avrei dovuto prenotare un tavolo. Confidavo nella possibilità che ci fossero molti ristoranti vuoti.

OK, ci vediamo dopo, tutto apposto.

Mentre cercavo la tasca dello zaino per posare il cellulare e andare immediatamente alla ricerca di un ristorantino, non troppo vicino ai prezzi salati del centro, non vidi il mio quaderno e per un attimo tutto il peso della mia noncuranza mi cadde addosso come un enorme masso.

E se qualcuno lo avesse preso, anche solo per scherzo? E se un pazzo avrebbe voluto rubarmi la storia? E se non l'avessi più trovato? Sarei rimasta senza niente, mesi di impegno volatilizzati, pensai. Quasi svenni, col rischio di farmi rubare comicamente anche lo zaino con tutto ciò che rimaneva. Mi alzai svelta e per istinto iniziai ad osservare le mani di tutte le persone vicine a me, provai a fare attenzione a tutti i particolari: se dalle borse di alcune ragazze si intravedesse qualcosa, ma non vidi nulla. Guardavo verso la piazza, dove c'erano innumerevoli persone ed io pensai stupidamente di poterle osservare tutte ad una ad una. Avevo perso la mia storia, mi misi le mani ai capelli e iniziai a sperare, con tutta me stessa, di essermi soltanto imbattuta in un brutto sogno fino a quando una voce, dietro di me,  mi fece tornare alla realtà.

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