Capitolo 5 - Il vecchio e il nuovo

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Uscii di corsa dal bed and breakfast e quando mi ritrovai fuori, ero a corto di aria nei polmoni.
Ally aveva un figlio.
Quel pensiero mi stava torturando, non riuscivo a fermare la mia testa e tutto mi diceva che era passato troppo tempo, avevo lasciato che le cose cambiassero in maniera irreversibile e forse, lei era felice davvero, anche senza di me.
Corsi come non facevo da tempo, come se le mie gambe avessero bisogno di quel movimento e i miei polmoni necessitassero di quello sforzo per poter riprendere ad incamerare ossigeno in maniera regolare.
Senza quasi accorgermene, mi diressi verso il locale di Francy; avevo bisogno di spiegazioni e dal momento che Samaire era fuori città, soltanto quella vecchia brontolona poteva aiutarmi.
Entrai nel locale come una furia; sentivo la rabbia infuocarmi le vene e il petto alzarsi velocemente, cercando di incamerare quanta più aria possibile; avevo vissuto senza amore per quattro anni, eppure adesso l'idea di doverci rinunciare per sempre mi stava torturando.
- Buon Dio, Colin! Sembra tu abbia commesso un omicidio! Che succede?
- Tu lo sapevi! – Dissi, accusando la donna dietro al bancone.
Il locale era praticamente vuoto, a parte due ragazzi che conoscevo da quando erano piccoli e che smisero di parlare non appena sentirono il mio tono.
- Di che cosa stai parlando?
- Di quel bambino!
- Sei stato da lei, non è vero?
- Sant'iddio Francy, certo che sono stato da lei!
Francy abbassò gli occhi, si asciugò le mani e poi uscì dal bancone, facendomi strada verso un tavolo libero.
- Adesso calmati. È così e non puoi farci niente.
- Ma...
- No, Colin. Le cose cambiano e le persone anche. La vita ci mette davanti a tantissime sfide e dobbiamo saperle affrontare. E Dio sa se in quella famiglia hanno saputo far fronte agli stravolgimenti.
- Non posso pensare che abbia un figlio!
- Lo so. È stato strano per tutti ma è così e tu non puoi farci niente. So quanto sei legato a lei ma il destino non si cambia.
- E' così ingiusto!
- Adesso non fare il ragazzino. Su forza, mangia qualcosa e va' a divertirti un po'. Madison è piena di belle donne, troverai qualcuna che è pronta a tirarti su il morale, per una sera.
Francy mi mise davanti un hamburger con delle patatine fritte che, in situazioni normali, avrei divorato senza troppi complimenti ma che in quel momento non fece che aumentare la nausea che avevo iniziato a sentire non appena avevo visto Ally con quel bambino in braccio. Non potevo credere alla rassegnazione con cui mi aveva parlato Francy ma soprattutto, non potevo credere che era finita lì la mia speranza.
- Non ho fame. Sai dov'è Duncan?
- Ti sembro un'indovina? Che diavolo ne so dove si è ficcato il tuo amico!
- Va bene, lascia perdere. – Mi alzai dal tavolo, presi le chiavi della macchina di Francy dal registratore di cassa e decisi di andare a fare un giro da qualche parte. Dovevo scaricare l'adrenalina, cercare un capro espiatorio che mi facesse sbollire la rabbia e la frustrazione che continuavano ad attanagliarmi lo stomaco.
- E adesso dove vai? – Chiese Francy, preoccupata.
- A fare un giro. Pago io la benzina.
- Colin, sono le dieci di sera!
Non badai alle sue parole; uscii dal locale sbattendo la porta e facendo suonare lo scacciapensieri più del dovuto. Avrei voluto buttarla giù, sarebbe stato un buon modo per iniziare a smaltire il nervosismo ma poi avrei dovuto fare i conti con Francy e forse non era una buona idea.
Salii sulla vecchia auto di Francy senza sapere bene dove sarei andato; avevo voglia di urlare ma anche di piangere. Il dolore per un'occasione persa fa più male di qualsiasi ferita fisica e l'idea di essere impotenti e non poter far nulla per cambiare le cose uccide dentro, facendo perdere la speranza. Morire forse è altrettanto doloroso.
Mi spinsi fino al confine con il ghetto degli afroamericani, il territorio dei Kazoo. Per noi Wildcats qella era una zona off-limits e anche se non ero più un giocatore di quella squadra, la mia presenza lì era comunque poco gradita e sarei sicuramente stato in pericolo se qualcuno di loro mi avesse trovato lì. Non mi importava.
Volevo smaltire la rabbia in qualche modo e sarei stato pronto anche ad affrontare i miei vecchi nemici; preferivo prendere qualche pugno e magari qualche calcio ben assestato, piuttosto che sentire quel dolore che sembrava squarciarmi il petto. Avrei voluto offrirmi come vittima sacrificale e consegnarmi ai Kazoo volontariamente, pur di mettere a tacere quella voce che continuava a ripetermi che Ally aveva un bambino e che non sarebbe mai più stata mia.
Ero già sul punto di entrare nel ghetto, pronto a farmi pestare a dovere da quegli uomini senza pudore, quando il cellulare – un dannato aggeggio che il manager dei Bulls mi aveva costretto a portare sempre con me da quando ero a Chicago – prese a squillare.
Erin lampeggiava sul display.
Non avevo voglia di parlare con lei in quel momento ma erano tre giorni che non la sentivo; non l'avevo più chiamata da quando ero tornato a Madison ed era ovvio che prima o poi si sarebbe fatta sentire.
- Ehi! – Dissi infine, dando il via alla conversazione.
- Ehi, straniero! – La sua voce era fresca e tranquilla, in enorme contrasto col peso che sentivo nel petto.
- Come stai?
- Io bene, solo che pensavo di avere un ragazzo e invece a quanto pare è tornato a casa e si è dimenticato di me.
- Non mi sono dimenticato, Erin. Ho avuto da fare.
- Cose importanti?
Trattenni una risatina ironica. Erano le cose più importanti della mia vita. Era Ally e non ci sarebbe mai stato niente di più importante al mondo.
- Molto. Ma non mi va di parlarne. Tu come stai?
- Bene ma mi manchi.
Volevo dirle che era lo stesso per me, che tre giorni senza vederla erano stati i più lunghi della mia vita e che non vedevo l'ora di tornare da lei ma non sarebbe stata la verità. In tutto quel tempo, dal mio ritorno a Madison, non avevo pensato ad Erin una sola volta. Ero un egoista senza scrupoli, pensavo soltanto al mio bene senza pensare che era in ballo una ragazza innocente che avrebbe sicuramente pagato il presso di quel mio atteggiamento del cazzo.
- Colin ci sei ancora?
- Sì, scusami. Senti devo andare adesso.
- Che stai facendo a quest'ora?
- Sono in giro.
- Ok. Non ti divertire troppo con le ragazze del posto, d'accordo?
- Ma che dici! - Sapevo che la sua era soltanto una battuta ma ovviamente, mi aveva punto nel vivo. Avrei tanto voluto divertirmi con una ragazza in particolare ma non era più disponibile e questo mi faceva rodere il fegato.
- Stavo scherzando, Col. Sei sicuro che va tutto bene?
- Senti Erin, mi hai chiamato per l'Inquisizione o perché avevi voglia di sentirmi?
- La seconda ma onestamente inizio a pentirmene. Chiamami quando sarai di buon umore. Buonanotte!
Mise giù senza aspettare che io rispondessi, il che contribuì a farmi sentire uno schifo. Buttai il cellulare da qualche parte sul sedile del passeggero accanto a me e imprecai, prendendomela col volante. Non avevo più nulla. Avevo rincorso l'unica persona che era riuscita a dare una scossa alla mia vita ma senza alcun risultato: lei era felice, era una madre e si stava per sposare; al tempo stesso, avevo trascurato la ragazza con cui stavo, le avevo risposto male e adesso anche quella relazione era in bilico, perché in realtà da quando con Ally era finita, avevo ripreso a vivere come un egoista: senza amore, pensando solo ad appagare i miei bisogni.
Ancora in preda alla frustrazione, accesi di nuovo il motore e mi allontanai dal ghetto.
Ero ancora troppo codardo per poter affrontare da solo i Kazoo.



Passai la notte a guidare per la città, vagando senza meta, pensando a cosa fare: restare a Madison era ancora una buona idea? Con Ally era davvero tutto perduto? L'immagine di lei con Adrien non riusciva ad uscire dalla mia testa eppure qualcosa mi spingeva a continuare a starle accanto. C'era qualcosa che ci legava, un sottile filo rosso che aveva fatto sì che, quattro anni prima, lei arrivasse a Madison e si scontrasse con me e con la mia vita disordinata e violenta. Ero cambiato molto da allora, non ero più quel ragazzo senza radici che viveva alla giornata; ero diventato un giocatore dell'NBA e avevo compreso che agire d'impulso era sbagliato ma c'era una costante nella mia vita: Ally. Nonostante il tempo, nonostante la distanza, era sempre lì, nella mia mente e nel mio cuore.
Alle prime luci del mattino, mi svegliai davanti al campetto dove con i Wildcats giocavamo dopo aver fatto colazione da Francy e ogni volta che dovevamo prendere delle decisioni che non riguardavano propriamente il gioco; avevo guidato fin lì dopo aver vagato qui e là. Non avevo voglia di tornare al bed and breakfast, non avevo voglia di vedere Ally e comunque lei non sarebbe stata ad aspettarmi. Aveva Adrien e il suo fidanzato di cui occuparsi, per me non c'era più spazio.
Tirai su la testa dal volante e sentii il collo dolere; mi stiracchiai cercando di svegliare i muscoli e poi mi guardai intorno: ero nel mio habitat naturale, un campo di basket che mi aveva visto crescere e improvvisamente, la voglia di saperne di più di quei ragazzi che un tempo erano stati la mia famiglia mi scorse nelle vene e mi spinse a dare gas alla mia auto e a dirigermi verso la palestra.
Era ormai settembre inoltrato e le giornate cominciavano ad essere fredde; passai da Francy per prendere un giubbotto più pesante e anche per rinfrescarmi e mettere qualcosa nello stomaco. Rassicurai la mia vecchia amica: stavo bene, ero ancora tutto intero e, a parte la fame, non doveva preoccuparsi di altro. Sapevo bene che Francy non se la sarebbe bevuta, sapeva che la verità che avevo scoperto mi faceva male ma non era avvezza a fare domande: quel che non veniva detto, non era affar suo e io ringraziai quel suo modo di fare, perché non avevo voglia di sviscerare i miei sentimenti per dare spiegazioni.
- Sai se i ragazzi sono in palestra oggi?
- Certo che no, razza di rincitrullito. Oggi è giovedì e sai bene che Stevie gli concede la giornata libera.
- Giusto. Immagino che invece lui sia sempre nel suo ufficio.
- Ovvio. Schemi e tattiche non si studiano da sole.
Annuii; quel vecchio testardo continuava a passare tutte le sue giornate dedicandosi anima e corpo al basket. Non aveva molto altro, a dirla tutta: sua moglie era morta anni prima e a causa del suo caratteraccio e dell'aiuto che dava spesso ai Wildcats per non farli finire nei guai, aveva deciso di allontanare le sue due figlie da Madison, permettendo loro di studiare in università prestigiose ma lontane da casa. Era solo e la sua famiglia erano i suoi ragazzi; ovviamente, io e lui avevamo un rapporto speciale, privilegiato dal fatto che era stato l'allenatore di mio fratello e considerata la fine che aveva fatto Doug, era quasi scontato che Stevie avesse sviluppato il suo senso di protezione nei miei confronti. Da quando Douglas era morto, nessuno aveva pensato che io ero perfettamente in grado di cavarmela da solo, che ero abbastanza intelligente da capire fino a che punto era giusto spingersi negli affari dei Wildcats e quando era il caso di fermarsi e aspettare un passo falso degli avversari, che non erano tali soltanto in campo. Tutti si sentivano in dannato dovere di proteggermi, come se non fosse poi una mia scelta decidere se farmi spaccare la faccia fino a restarci secco o scegliere di fuggire alla morte.
Trovai Stevie nel suo ufficio, alle prese con schemi di gioco incomprensibili, a cui soltanto lui riusciva a dare un senso. Erano passati quattro anni dall'ultima volta che mi ero ritrovato faccia a faccia con lui e i segni del tempo si vedevano tutti su quel mio vecchio amico. Aveva accettato con la stessa dose di rammarico e soddisfazione la mia decisione di andare a Chicago: aveva sempre creduto che noi Wildcats meritavamo di più e ci aveva custoditi come si conservano le gemme preziose; seppur consapevole che fuori dal campo di basket eravamo dei delinquenti che non ci mettevano molto a prendere in mano una pistola, soprattutto alcuni di noi, era convinto che alla fine ognuno avrebbe trovato la sua strada nel mondo della pallacanestro e fui felice di vedere i suoi occhi brillare quando gli dissi che i Chicago Bulls mi avevano offerto un contratto.
- Diventerai il nuovo Michael Jordan! – Mi disse, dandomi una cameratesca pacca sulla spalla.
- Spero solo di non finire anche io a fare film con Bugs Bunny! – Risposi di rimando.
Quella mattina, quando alzò gli occhi e mi vide sulla sua porta, la stessa luce di quando me ne ero andato gli illuminò lo sguardo e un sorriso fiero gli aprì la bocca.
- Colin Preston, sei davvero tu?
- In carne e ossa, coach!
- Che mi venga un colpo, mi sono davvero invecchiato se torni a trovarmi!
- Sentivo la mancanza di casa.
Mi disse di aspettare soltanto un minuto, doveva finire uno schema e se non segnava i nomi dei giocatori nelle posizioni che aveva stabilito, se ne sarebbe dimenticato e allora al diavolo la strategia. Disse anche che ormai era troppo vecchio, che doveva scriversi tutto quello che riteneva importante perché la sua memoria iniziava a fare cilecca e finiva col dimenticare parecchie cose. Se ad un primo sguardo, Stevie poteva sembrare quello di sempre, guardarlo da vicino e sentirlo parlare mi fecero capire che in realtà l'età per lui iniziava ad essere un fardello e iniziava a non saper gestire tutti le complicanze che l'avanzare di questa comportava. Aveva il visto più rugoso e aveva perso parecchi kili, si muoveva con più lentezza ma aveva ancora lo sguardo vivo di chi la sapeva lunga su come smarcarsi da due avversari e andare a canestro.
- Ti va di fare un giro in palestra? – Mi chiese infine, dopo aver sistemato tutti i suoi fogli nella cartellina di pelle con lo stemma dei Wildcats che avevo portato addosso per anni.
- Sono qui per questo.
Mi condusse, attraverso un corridoio malconcio, nella struttura dove in inverno i Wildcats facevano gli allenamenti e dove io ero cresciuto. Il pavimento era stato rinnovato da poco, il parquet era lucido e l'odore del legno nuovo era ancora vivo; le tribune invece erano piuttosto mal ridotte, così come i canestri.
L'aspetto generale non mi piaceva affatto; non era lo stesso posto che avevo lasciato, quando avevamo vinto il campionato di Stato e i nostri tifosi riempivano le tribune. I ricordi erano ancora vivi nella mia mente e mi faceva male vedere quel posto ridotto così. Era l'ennesimo schiaffo che prendevo da quando ero tornato a Madison.
- Sant'iddio Stevie. – Commentai, guardando allibito il mio vecchio allenatore.
- Lo so. E' così da un po'.
- Come vanno le cose?
- Vuoi la verità?
- Ho sempre voluto la verità, lo sai.
Stevie prese un gran respiro, come se anche lui dovesse dirmi qualcosa di molto difficile da digerire e io pensai che da quando ero tornato, tutti non avevano fatto altro che darmi notizie che mi avrebbero fatto male, con l'unica differenza che Stevie non avrebbe cercato di indorare la pillola ma, come al solito, avrebbe raccontato le cose esattamente come stavano.
- Va uno schifo, Colin. I ragazzi non sembrano avere il minimo interesse per la squadra, giocano in maniera egoistica, pensando soltanto alle prestazioni personali e senza fare l'interesse del gruppo. Siamo a metà classifica e solo perché Parker e Joel hanno giocato le prime partite e ci hanno aiutato a fare dei punti in più che adesso ci permettono di non lottare per la retrocessione. Avevo posto loro l'obiettivo dei play-off ma non è stato sufficiente. Non so davvero cosa devo fare per sollevare le sorti di questa squadra.
- E gli schemi di gioco come sono? Ci sono dei buoni tiratori?
- I miei schemi forse non sono più adatti. In quattro anni, il sistema di gioco è cambiato notevolmente e servirebbero idee fresche e innovative e io onestamente credo di essere troppo vecchio per pensare ancora a qualcosa di interessante. Per quanto riguarda i tiratori, ci sono un paio di ragazzi che hanno dei lanci che se ben sfruttati potrebbero essere micidiali ma vanno inseriti nel gruppo e invece loro continuano a voler giocare per conto loro, per la gloria personale. In più, la storia recente dei due giocatori più famosi dei Wildcats che sono finiti a giocare nell'NBA ovviamente non aiuta lo spirito di squadra.
Mi guardai intorno e, ancora una volta, mi chiesi se non fosse tutta colpa mia. Avevo lasciato la squadra nel momento di gloria più alto e da allora tutto era precipitato: la mia relazione con Ally, il rendimento della squadra e anche la salute dei miei migliori amici, tanto che Nigel era finito su una carrozzina.
- Non dovevo andarmene... - Dico, facendo una considerazione ad alta voce, più che una vera affermazione.
- Non dire sciocchezze. Il tuo talento qui era sprecato, considerato anche chi eri tu per i Wildcats.
- Sì ma guarda adesso! – Indugiai con lo sguardo sulla palestra, il cui pavimento nuovo strideva con la fatiscenza del resto.
- Non è colpa tua, Colin! Se fossi rimasto qui, forse avresti fatto la fine di Douglas e ti assicuro che lui avrebbe dato qualsiasi cosa per poter avere la tua stessa occasione. E poi, adesso sei tornato, no?
- Sì ma all'inizio di Aprile devo tornare a Chicago.
- Otto mesi. Sarebbero più che sufficienti per tirare su le sorti della squadra.
- Mi stai chiedendo forse qualcosa, coach? – Chiedo sorridendo, conoscendo già la risposta.
Stevie annuì con fare deciso; sapevo che aveva bisogno di me e me lo avrebbe chiesto senza tanti giri di parole.
- Credo proprio che tu e Duncan siate tutto ciò che serve a questi ragazzi.
- Ci devo pensare, coach.
- Pensaci ma ti basterà vedere le ultime tre partite per capire.
- Giocano così male?
- Male? Male sarebbe già un risultato! È una squadra senza anima. I ragazzi hanno bisogno di motivatori e credo che due ex giocatori Wildcats approdati nell'NBA possano essere un valido esempio. E poi, non si tratterebbe solo del basket.
- Le solite storie?
- Anche peggio. Da quando non ci sei più tu a tenere a bada le teste calde, gli affari sono allo sbaraglio e Nigel è paralizzato e fuori di testa.
- E i nuovi ragazzi che fanno?
- Parano il culo a Joel e Parker e poi si ficcano nei casini. Te lo ripeto, gli serve un esempio e io sono troppo vecchio per essere credibile.
Riflettei su quelle parole; in effetti, se avessi avuto anche io un modello da seguire, forse avrei capito prima che raccogliere il testimone di mio fratello non era stata una buona idea e forse sarei approdato nell'NBA anni prima; certo, non avrei conosciuto Ally ma per come stavano andando le cose, forse non sarebbe stato poi così male.
- Fammi riflettere sulla tua proposta.
- D'accordo ma voglio che tu venga sabato alla partita. Voglio che tu ti renda conto delle condizioni della squara.
- Lo farò.
- Bene allora, non ho altro da dirti.
Sorrisi per quella scortesia tipica di lui. In quel momento, un'idea malsana mi balenò per la mente.
- Posso chiederti una cosa, coach?
- Da quando Colin Preston deve chiedere il permesso?
- Facciamo due tiri, ti va?


Il pomeriggio, una stanchezza dettata dalla notte agitata che avevo passato si impossessò del mio corpo e avvertii una impellente necessità di dormire. Dovevo tornare al bed and breakfast, era inutile rimandare. Così, lasciai la macchina a Francy – ovviamente a secco – e mi decisi a camminare fino alla locanda di Samaire.
Quando arrivai era quasi ora di cena, il sole era sceso da un po' e iniziava a far freddo. Nella locanda non c'era quasi nessuno, se non una coppia di svizzeri in viaggio di nozze; Ally era alla reception e stava indicando loro un punto qualsiasi sulla mappa della città. Quando mi vide, abbozzò un sorriso e mi chiese di aspettare. Adrien sgambettava nel suo seggiolino, poggiato sul marmo della scrivania della reception e giocherellando con un sonaglio che brandiva come un trofeo. Era un bambino bellissimo, non potevo negarlo.
Ally si liberò velocemente dei turisti e, affabile, li salutò invitandoli a godersi la serata.
- Devi dirmi qualcosa? – chiesi, dopo che la coppia si chiuse la porta alle spalle.
- Ho sentito Samaire, dice che non intende accettare la tua carta di credito o i tuoi contanti per nessuna ragione al mondo.
- Che cosa? Usufruisco del suo bed and breakfast, devo pagare.
- Sì ma tecnicamente sei in una camera che non è a uso hotel, quindi non devi pagare. In più, pensa che è talmente bello che tu sia di nuovo qui che non vuole altro.
A quelle parole, trasalii. Samaire era la prima che aveva espresso, seppur indirettamente, la sua gioia per avermi di nuovo intorno e forse, era anche l'ultima da cui mi sarei aspettato una reazione del genere.
- E tu?
- Io cosa?
- Anche tu pensi che sia bello avermi di nuovo qui?
Ally abbassò lo sguardo, torturandosi le dita, come faceva sempre quando era in difficoltà. Una cosa era certa: poteva essere madre, poteva essere felice ma io non le ero ancora del tutto indifferente; suscitavo ancora qualche emozione in lei e mi ripromisi in quel momento di scoprire quanto profonda fosse.
- Dove sei stato? Non sei rientrato ieri sera.
- Principessina, non fare la ficcanaso.
- Scusami, hai ragione. Non è affar mio quello che fai.
Inarcai un angolo della bocca, poi presi a vagare per la stanza; l'odore dei fiori secchi dei pout-pourrit sparsi qui e là emanava un'essenza di lavanda piacevole, eppure, non era lo stesso posto di tanti anni prima.
- Ho fatto un giro. Dovevo capire alcune cose.
- Gli affari dei Wilcats? Sei tornato e sei di nuovo a bordo della nave?
- No. Non ancora, almeno.
- Oh Colin!
- Ally, non deve interessarti.
- Come puoi...
- No! Non sai dirmi nemmeno se ti fa piacere che io sia di nuovo qui, non puoi farmi domande e farmi capire che sei in pena per me.
- Il semplice fatto che mi dimostro preoccupata per me dovrebbe farti capire che mi fa piacere averti di nuovo qui!
- E allora dimmi anche perché!
I toni si erano alzati parecchio; come sempre quando discutevamo, io e Ally ci eravamo isolati da tutto il resto, chiudendoci nella nostra bolla dove, da sempre, litigavamo e poi facevamo pace. Adrien dal suo seggiolino iniziò a piangere, probabilmente spaventato dalle voci che avevano perso la calma di una conversazione normale.
Ally distolse lo sguardo da me, rompendo quel contatto e riportando entrambi al mondo reale.
- Devo andare, adesso.
- Certo. Come al solito, scappi. – Mi pentii subito di quell'affermazione ma ormai era troppo tardi per ritirarla.
- Scappo? Io scappo? – Chiese lei, prendendo Adrien in braccio e iniziando a cullarlo per farlo tranquillizzare: - Sei stato quattro anni a Chicago e non mi hai chiamato una sola volta e poi, dopo una quantità di tempo enorme, spunti di nuovo qui e pretendi risposte e considerazione!
- Io non pretendo niente!
- Non gridare! Basta così. Non ho davvero nient'altro da dirti.
In quel momento, il mio cellulare squillò di nuovo, sancendo una volta per tutte la fine di quella conversazione.
Erin lampeggiava di nuovo sul cellulare e stavolta, avrei dovuto mettere da parte il mio malumore e cercare di essere un fidanzato impeccabile.
Peccato che non lo fossi affatto.

Loveless - #Wildcats Serie Vol.2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora