Capitolo primo

661 26 5
                                    






New Jersey, 1749.

Nella quiete mattutina della frazione di bosco tra Madison e Long Hill riecheggiò d'un tratto, sempre più incalzante, il suono degli zoccoli di due cavalli al galoppo.
Lontano dal percorso della strada sterrata, un cavaliere dedito alla fuga sbirciava il suo inseguitore, spronando l'animale ad allungare le distanze dall'altro.
Giunto in prossimità del sentiero, si lanciò oltre una siepe selvatica avvertendo la presenza dell'avversario affievolirsi sempre di più.
Si voltò un'altra volta: l'aveva seminato!
Con un sorriso, già pregustando la vittoria, sferrò un altro calcio all'addome dell'animale incitandolo a raggiungere al più presto il punto di traguardo e reclamare il premio.
Ma l'altro fantino non era affatto rimasto indietro. Bensì aveva cambiato direzione, dirigendosi nei pressi di un ponticello di pietra ombreggiato dalle fronde, deviando tra gli alberi.
In pochi minuti raggiunse la svolta del sentiero e scartando rapido di lato, si pose in testa al rivale di una ventina di metri.
Questi, per evitare lo scontro, dovette arrestarsi bruscamente e riprendere subito la corsa imprecando al vento.
Di nuovo secondo, Simon si ritrovò a sterzare di nuovo, quando il sentiero sfociò in un campo di mais. Ma l'avversario non si fermò e anzi si gettò senza riserve nel campo, sollevando un cumulo di foglie.
Da lì a poco le urla indignate delle contadine che raccoglievano pannocchie, giunsero alle orecchie di Simon, che trafelato e con i capelli scompigliati corse più che poté per aggirare l'immenso ostacolo.
Da lontano gli parve di sentire un rumore metallico, ma non ci fece troppo caso e alla fine raggiunse il cortile della tenuta, residenza dei conti Bane, dove era cresciuto e dove lavorava come stalliere. Arrestandosi di botto e con il fiatone, Simon scese da cavallo con la sua espressione vittoriosa, non vedendo l'avversario da nessuna-
« Sei decisamente troppo lento »
No! Non era possibile!
L'altro cavaliere era appoggiato al fienile, con il suo cavallo che tranquillamente si gustava il premio per la lunga gara, mentre con tutta tranquillità si sfilava i guanti da fantino.
L'espressione soddisfatta dipinta su quel sorriso roseo e negli occhi blu come il mare d'estate, i capelli neri come la pece appena scompigliati dal vento di fine primavera e il profilo forte di un ragazzo giovane e testardo, quanto gentile e coraggioso.
« Hai barato! » obiettò prontamente Simon, sforzandosi di non far tremare troppo la voce per la fatica.
Tutto il contrario di Alec, che ancora lo guardava tranquillo e apparentemente per nulla affaticato.
D'altronde Simon era un ragazzo dedito più ai libri, che ai cavalli.
Un controsenso, visto il suo lavoro. « Hai attraversato il campo, accorciando il percorso! » aggiunse, aggrottando le sopracciglia scure come i capelli.
« Non era vietato nel regolamento »
« Non era nemmeno citato nel regolamento! Era dato per scontato che bisognava seguire lo sterrato. Quindi sei squalificato! » Alec alzò gli occhi al cielo.
« Allora anche tu, visto che hai tagliato dai cespugli » disse il ragazzo dagli occhi blu, carezzando la criniera di Lux. "Che nome assurdo", aveva sempre pensato.
Simon divenne rosso in volto.
Alec, allora, gli sorrise gioviale e gli fece un cenno con la testa.
« Dai Lewis, torniamo a lavoro. » detto questo, prese le briglie di Lux e lo riportò nella stalla.




Tenuta della famiglia Bane.

Dopo aver lasciato il cavallo, strigliato e spazzolato, Alec si ritirò nella sua camera.
Era meno lussuosa delle altre stanze del castello, ma era accogliente.
Molti dei servitori dormivano in una stanza comune, ma da quando era stato preso a lavorare alla tenuta dopo la morte di suo padre, tre anni prima, la gentile anziana contessa lo aveva preso a cuore, tanto da donargli una stanza tutta per lui.
Lavorava alla villa da poco dopo quel tragico giorno, quando Robert Lightwood, suo padre, aveva avuto un malore improvviso mentre lavorava nei campi e si era spento nel cuore della notte tra le braccia della moglie Maryse.
Alec dovette inviare una lettera alla sorella Isabelle, allora cameriera di una dama nella città di Newart, addolorandola.
In seguito, Alec si assunse i doveri del padre, andando a lavorare nei campi al posto suo, mentre la madre si divideva tra il lavoro alla tenuta Bane e il prendersi cura del figlio minore, Max, che dalla morte del padre aveva cominciato a soffrire di attacchi di asma improvvisi.
In quella difficile situazione, tuttavia, giunse come una calda brezza estiva, la contessa Bane che lo portò dai campi alla tenuta, assumendolo come maggiordomo personale e dando un laudo compenso non solo a lui e a sua madre, ma anche al piccolo Max, invitandolo ad aiutare uno dei giardinieri con l'innaffiamento dei fiori, permettendo a Maryse di lavorare ed occuparsi del bambino senza affaticarsi troppo.
Alec si era affezionato sinceramente alla nobile contessa, offrendosi di leggere per lei i suoi libri preferiti e facendole compagnia.
Perso nei pensieri e osservando le luci del mattino riverberarsi sulle pareti chiare, Alec prese dallo scrittoio accanto alla finestra un foglio di carta, calamaio e inchiostro.
Doveva scrivere alla sorella, Isabelle, chiedendole notizie sul corso che frequentava a Trenton per diventare infermiera.
Ma prima che potesse intingere il pennino, la porta si spalancò.
Alec scattò in piedi, trovandosi davanti il volto di pacata bellezza, incorniciato dai capelli perfettamente acconciati di Catarina Bane, figlia minore della contessa, che lo scrutava irrigidita in una smorfia di scontento.
Tra le mani stringeva il ventaglio, un atteggiamento che ad Alec ricordava molto sua sorella quando da piccola faceva i capricci.
Chinò lo sguardo a quel pensiero, pronto a formulare la solita frase di cortese buongiorno.
« Che non succeda mai più, sono stata chiara? » pronunciò la contessa, severa come sempre. « Tu sei il maggiordomo di mia madre, non un vagabondo che prende un cavallo che non gli appartiene per sollazzarsi per i boschi. » aggiunse, squadrandolo da capo a piedi con un'ombra di disapprovazione.
Alec non ricordava di aver mai visto un accenno di gentilezza nei suoi confronti.
Il ragazzo indossava dei pantaloni smessi, sporchi di fango in alcuni punti.
« Bene, perfetto. » indicò le macchie con la punta del ventaglio. « Adesso il tuo nuovo divertimento consiste nell'insudiciare tutta la tenuta, vanificando tutti gli sforzi degli altri servitori come te. »
A questo punto un sorriso di scherno le si dipinse sul volto.
« Perché te lo ricordi di non essere altro che un servo, vero? » si avvicinò. « Non vorrei che a forza di indossare gli abiti di mio fratello tu ti convinca di essere quello che non sei »
Alec alzò di poco lo sguardo.
« Contessa, io- » cercò di spiegare.
« Silenzio! » lo interruppe Catarina. « Non ti ho chiesto di rispondermi. Il fatto che mia madre si sia intenerita nell'adottarti, come fossi una cane randagio, non inganna me. » proseguì. « Io non mi lascio incantare dal tuo bel faccino. Forse dovrei rispedirti nei campi, a spaccarti la schiena come meriteresti. »
Alec, nonostante si sforzasse, non riusciva a capire perchè la contessa ce l'avesse tanto con lui.
Decise di rimanere in silenzio, in attesa del permesso per parlare.
« E ricordati, tu sei qui solo per la benevolenza di mia madre. Se fosse per me, saresti con tua madre e tuo fratello a patire la fame. Ci siamo intesi? »
« Si, contessa. » pronunciò con un filo di voce.
« E adesso ricomponiti, mia madre ti sta aspettando. »
Alec si cambiò in tutta fretta, volendo evitare ulteriori lavate di capo.
Si diresse poi nella biblioteca, luogo preferito dell'anziana contessa. Era un luogo tranquillo, con grandi librerie di legno ricolme di tomi su quasi ogni argomento, vetrate colorate e una terrazza colma di fiori che dava sull'immenso giardino da cui si poteva anche scorgere l'entrata.
Da quel balcone, Alec aveva sbirciato le carrozze dei nobili giungere alla tenuta durante feste e ricevimenti.
Era anche una delle stanze preferite di Alec, seconda solo alla grande serra, in cui le specie più incredibili di erbe, piante e fiori venivano accuratamente accuditi dai servitori. Un piccolo angolo di paradiso, quando il sole si destava dal suo sonno o si ricongiungeva con la notte.
La contessa era comodamente adagiata sulla sua sedia a dondolo, avvolta dalla sua coperta di fiori ricamati. Scrutava l'orizzonte, avvolta da chissà quale pensiero.
Alec si schiarì appena la voce, destando l'attenzione della donna che volgendo il capo nella sua direzione distese il volto in un dolce sorriso, contagiando anche il ragazzo che rispose con un altro sorriso.
« Buongiorno, contessa » disse, accennando un inchino. « Avete dormito bene? »
« Caro Alexander » la contessa era l'unica che lo chiamava con il suo nome completo. « L'età si fa sentire ogni giorno di più, ma almeno ci sei tu a portare un po' di luce alle mie giornate »
La contessa tese una mano nella sua direzione. Alec si inchinò dinnanzi a lei e la donna gli carezzò appena la guancia. Poi il ragazzo prese posto dinnanzi a lei, prendendo dal comodino il libro iniziato la mattina prima.
« Sei stato nei boschi stamattina? » Alec la guardò, abbassando appena lo sguardo.
« Si, contessa. Mi dispiace di avervi fatta aspettare »
Al contrario della figlia, la contessa sorrise comprensiva.
« No, devi divertirti. Vorrei poter avere la forza di fare anch'io delle lunghe passeggiate. » aggiunse, con una punta di malinconia.
Alec non conosceva molto la contessa, ma era certo che da giovane fosse una donna piena di forza e desiderosa di correre, esplorare, vedere ogni cosa.
« Sono certo che siete stata una grande amazzone »
La contessa rise, di cuore.
« Non ero male, in effetti. » lo guardò con dolcezza.
Poi il suo viso gentile si adombrò di nuovo. « Vorrei che mia figlia fosse più gentile con te »
Alec la fissò sorpreso.
Prima che potesse aprire bocca, la contessa lo anticipò.
« So che ti riprende spesso. Ma non devi temere nulla, così come tua madre e il tuo caro fratellino. » si sistemò meglio sulla sedia. « Qui si fa solo quello che decido io. Il resto sono solo parole »
Rincuorato, Alec le sorrise.
« Vi va di continuare la lettura di ieri? »
« Sì. » volse nuovamente lo sguardo verso fuori, così lontano che Alec non riuscì a raggiungerlo. « Se solo mio figlio tornasse a casa » sospirò.
Il figlio della contessa, il conte Magnus Bane, si era arruolato otto anni prima nell'esercito del Clave, prima per un lungo addestramento a Brooklyn e in seguito per delle lunghe missioni al nord del paese.
Non si ricevevano spesso suo notizie e quando giungevano erano trafelate e poco dettagliate. Sua madre soffriva della sua assenza, era evidente.
Non era solamente preoccupata per lui, per la sua salute, ma anche per la tenuta.
Il conte era l'unico che sarebbe stato in grado di occuparsi di tutte le faccende che la contessa madre era troppo stanca per dedicarvisi con il giusto impegno.
E Catarina era troppo concentrata sul buon nome della famiglia e sul riprendere la servitù, per occuparsi in maniera considerevole anche delle faccende economiche.
« Ah, ragazzo mio » disse sconfortata la contessa, con voce lieve. « Qui va tutto in rovina » sospirò, quasi impercettibilmente, la tristezza nello sguardo ma ancora di più, un'amara consapevolezza.
Quindi era quello lo sguardo di chi sta perdendo le speranze.
E Alec si chiese se la contessa si stesse rivolgendo a lui, con quelle parole, o al lontano figlio.
Con questi pensieri, apri la pagina dove aveva lasciato il segno e continuò a leggere.

Hidden CourageDove le storie prendono vita. Scoprilo ora