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Era il ventunesimo giro senza sosta attorno al perimetro del Peppermint Park che facevo. I polmoni chiedevano pietà, il resto del mio corpo richiedeva un po' di idratazione. Mi piegai sulle mie stesse ginocchia, ansimante e sudata, ferma davanti a quell'altalena che aveva visto spesso la mia infanzia. Mia e dei miei fratelli.
Controllai l'orario guardando sul piccolo orologio che tenevo sul polso sinistro; erano le sei e trenta del mattino. Il sole aveva iniziato a sorgere al mio diciassettesimo o diciottesimo giro. Constatai che faceva ancora un caldo bestiale per essere alla seconda settimana di settembre, ma d'altronde qui nel Maine il tempo era imprevedibile. Tra qualche ora ci sarebbe potuta essere la possibilità di un uragano. Quando ripresi un po' di fiato, decisi di ritornare a casa per prepararmi al mio primo giorno di scuola. Non un primo giorno di scuola qualsiasi, no, al mio primo giorno di scuola nella Portland High School.

Casa mia non era tanto distante dal piccolo parco in cui ero andata a correre. La corsa era una delle poche cose che amavo; aveva iniziato a piacermi l'anno precedente, quando - durante l'ora di ginnastica - la mia insegnante mi disse che avevo avuto un buon tempo durante un giro di corsa per la palestra. Ho partecipato anche a delle gare a livello statale e, con impegno e allenamento, sono riuscita a vincerle.

Entrai in casa silenziosamente, sperando di non svegliare nessuno, in particolare Lex. Mio padre. Non che non sapesse del fatto che quattro volte a settimana corressi, ma era un tipo altamente protettivo e sapeva di non potermi imporre cose perché ero come lui: non accettavo chi mi dicesse cosa fare o cosa non fare. Ci scontravamo spesso perché eravamo fatti della stessa pasta. Testardi e orgogliosi. Brutta accoppiata. Avevo dodici anni quando iniziai a chiamarlo "Lex" e non "papà". Mi veniva spontaneo e poi sapevo che gli dava fastidio. Papà è così e non tratta nessuno come un suo pari, è un maniaco del controllo. Mia madre dice sì, è fissato con l'avere il controllo di tutto, ma lo fa soltanto perché è di natura insicuro ed ha paura di perdere le cose a lui più care. Tra queste ci sono io. Sono quella che gli da più rompicapi da risolvere e sono la più indomabile, cosa che lo spaventa di più a detta di mamma.
"Ha bisogno di sentire che i suoi figli conteranno sempre su di lui."
Mi diressi al bagno per fare una lunga doccia. Mentre mi spogliavo, osservai il mio corpo. Constatai di essere molto magra e minuta. Non ero una di quelle che si facevano complessi e, anzi, potevo affermare con certezza che alla mia età sapevo già essere abbastanza razionale e matura in certi casi. Guardai ancora per un po' la mia immagine riflessa allo specchio mentre lasciavo scorrere l'acqua della doccia in modo che si facesse calda. Avevo il seno piccolo, le clavicole sporgenti, la pancia piatta; in compenso avevo un po' di "consistenza" sui fianchi e delle gambe allenate e slanciate. Risalii con lo sguardo per soffermarmi sul mio viso.
«Maledetto Lex.» dissi stringendo i denti. Ero la versione di lui al femminile per quanto riguardava la faccia: stessi occhi azzurri, stessa espressione, stessa forma del viso, stesse labbra piene. Le uniche eccezioni erano il naso all'insù e i capelli biondi, ereditati da mia madre.
I miei capelli... Pensai con amarezza. Maledissi di nuovo mio padre ed eravamo solo ad inizio giornata. Entrai in doccia ripensando al motivo - il litigio, più nello specifico - per il quale li avevo tagliati e tinti.

Entrai in casa consapevole di aver violato una delle leggi inviolabili in casa mia: il rispetto del coprifuoco. Non c'era un orario fisso di rientro, quello veniva stabilito al momento dell'uscita. Era concesso di tardare di dieci, quindici minuti, ma quella volta sapevo di essere nel torto marcio dal momento in cui ero rientrata un'ora e mezza dopo le dieci, come era stato deciso. Avevo detto ai miei che avrei cenato a casa di Mason, uno dei miei amici più cari e con il quale sporadicamente avveniva scambio di saliva, e che sarei rientrata dopo aver visto l'ultima puntata del Trono di spade. A Lex non piaceva per nulla Mason e gli piaceva ancor meno il fatto che mi inoltrassi a casa di un maschio, per cui ci volle un grosso aiuto da parte di mamma per fargli acconsentire a farmi uscire. Ero consapevole di averla combinata grossa, sapevo di essere indifendibile. Mamma non sarebbe venuta in mio soccorso ed io ero pronta ad affrontare tutte le conseguenze di quella scelta.
La verità è che io e Mason avevamo pomiciato fino a tardi ed il tempo era volato senza che ce ne rendessimo conto. Ma questo a Lex non potevo dirlo che era già pronto a farmi a fette, figuriamoci a sentirsi dire da una delle sue figlie che aveva fatto tardi perché aveva baciato un ragazzo.
Entrai in casa normalmente, senza nascondermi o fare piano. Lo avrei ascoltato sbraitare e me ne sarei andata in camera come se nulla fosse.
«Era proprio te che aspettavo.» Mi disse lui sbucando dalla cucina.
«Sì, beh, immaginavo.» Gli risposi guardandolo negli occhi. «Mi dispiace, ho fatto tardi senza rendermene conto. Eravamo presi dalla puntata del Trono di spade.» Aggiunsi poi in tono tranquillo. Mio padre fece qualche passo verso di me e lo vidi, vidi quanto faticava a restare calmo.
«Alexis, non me ne frega un emerito cazzo di tutte le scuse che ti inventi. Mi prendi per scemo? Ti sembro un coglione o ti sembra che vada in giro con scritto sulla fronte "imbecille", mh? Hai fatto tardi e okay, mi hai mancato di rispetto; ciò che non sopporto e, cristo, mi manda in bestia, è che tu mi prendi per il culo. Vuoi rifilarmi cazzate, capisci? Tu! Una ragazzina di quattordici anni! Una bambina che non ha ancora capito un cazzo dalla vita e di quanto possa essere schifosa!» Mi prese per un braccio e mi avvicinò a sé, facendo in modo che lo guardassi e ascoltassi meglio.
«Lo vedo che cosa hai fatto, lo capisco e l'ho fatto anch'io.»
«Allora non vedo dov'è il problema.» Dissi interrompendolo e mantenendo la calma.
«Il problema è che sei ancora una bambina, hai solo quattordici anni e sei mia figlia.» Disse con tono esasperato. «Isabel non le fa queste cose.» Aggiunse poi, tirando in ballo la mia sorella maggiore perfettina, ferendomi.
«Io non sono e non sarò mai lei. Ma anche se lo fossi non andrei comunque bene, eh, Lex? Forse dovrei provare ad essere un maschio, forse se fossi più come te saresti contento.» Dissi con un sorriso sarcastico. Lui era ancora più furioso.
«Questo è il motivo per cui sei ancora una bambina. Non capisci.» Sibilò a denti stretti. Dopo attimi di silenzio sbuffò dal naso l'aria che aveva inspirato. «Non vedrai più quel Mason.»
«Cosa altamente impossibile. Primo perché non decidi tu chi o cosa devo frequentare, secondo andremo a scuola insieme.» Risposi roteando gli occhi scocciata da quella situazione.
«Non uscirai per una settimana.» Né io, né lui aggiungemmo altro ed entrambi ci ritirammo nelle rispettive camere col sangue che ci ribolliva.

Il giorno successivo al litigio andai a tagliarmi i capelli; li feci cortissimi e rasati, proprio come li avrebbe acconciati un maschio e in più li tinsi di nero. Tenni fede alla mia parola. "Forse dovrei provare ad essere un maschio, forse se fossi più come te saresti contento." Inutile dire che quando tornai a casa non solo shockai tutti i membri della mia famiglia, ma dopo essersi ripreso, Lex me ne disse di tutti i colori.

Sospirai uscendo dalla doccia. Mi asciugai velocemente e indossai i miei soliti jeans neri strappati, una camicia floreale comprata al negozio di vestiti vintage, annodata sull'ombelico, vans nere ai piedi e provai a sistemarmi ciò che restava dei capelli buttandoli all'indietro, vanamente. Il ciuffo mi ricadeva sempre davanti, sulla fronte, a mo' di frangetta. Ci rinunciai e scesi di sotto a prepararmi la colazione. Avevo ancora altri venti minuti prima che la scuola iniziasse. Constatai che erano già tutti comodamente seduti a tavola. Gli unici ancora in pigiama erano mia madre e Mickey, il mio fratellino di quattro anni. Mio padre era seduto a capotavola, come un vero maschio alpha, e beveva il caffè seguendo il notiziario che davano alla tv. Isabel era... Isabel. Un angelo sceso in terra. Avevamo un solo anno di differenza, lei era più grande. Avevamo anche un altro fratello, il maggiore tra di noi, ma viveva altrove per lavoro. Ezekiel, a soli vent'anni, aveva già una carriera ben piazzata sulle spalle.
«Buongiorno Lexi.» Mi fece mia madre raggiante come sempre. Mi fece cenno di sedermi e mi piazzò davanti una spremuta d'arancia. La ringraziai e bevvi il succo. Aggredii anche un cornetto vuoto e bevvi, poi, un goccio di latte. "La colazione è il pasto più importante" mi diceva sempre Lex da piccola.
«Sei emozionata per il primo giorno delle superiori?» Mi chiese mia madre. Finsi un sorriso e annuii. Lei era l'ultima delle persone a cui volevo causare problemi, sentivo subito i sensi di colpa quando sbagliavo e sapevo che era mia madre a dispiacersi.

Finita la colazione, Lex annunciò a me e a mia sorella che ci avrebbe aspettate in auto per accompagnarci a scuola. Sbuffai e andai a prendere lo zaino dalla cameretta. Mentre uscivo di casa, mi avvicinai ad Isabel.
«Te lo chiedo come favore, a scuola non rivolgiamoci la parola.» Le dissi in tono supplichevole. Conoscendola aveva la fama di brava ragazza e femmina più ambita del secondo anno. Non volevo che mi aiutasse a socializzare, non volevo finire a far parte del suo gruppo di persone noiose e dalla puzza sotto al naso. Lei ci si trovava bene, era il suo posto. Era diversa da loro, però. Isabel era vera e sincera e sono sicura che due quarti delle persone che le stavano intorno la invidiassero.
Lei rise al mio fianco e mi accarezzò un braccio. «So benissimo che non hai bisogno del mio aiuto per farti degli amici... o dei nemici. Sono sicura che piacerai a molte persone, a scuola. Sei una tosta.» Abbozzai un sorriso sincero di fronte alla risposta di mia sorella e fui grata di avere una famiglia del genere, nonostante fosse un po' incasinata. Entrammo in auto e ci dirigemmo verso quello che sarebbe stato l'inizio di un nuovo anno.

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