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Come previsto, dopo cena, i miei uscirono di casa per recarsi a lavoro. Papà gestiva un American Bar da circa sedici anni. Mamma mi disse che ne diventò il proprietario come passatempo. Mio padre veniva da una famiglia ricca, una famiglia con cui aveva chiuso i rapporti - fatta eccezione per suo fratello minore - ma dalla quale aveva saputo trarre profitto. È sempre stato piuttosto furbo, Lex. All'inizio gli affari non erano alle stelle, però mio padre non si era dato per vinto. Da giovane era stato un frequentatore di bar, pub e discoteche, e, tenendo conto del suo passato da cliente, aveva subito capito cosa volesse il "pubblico". Si era creato il suo giro e la sua fama nell'arco di cinque o sei anni. Non c'era più stato un giorno in cui non facesse incassi record. In sere come queste, poi, capitava che si portasse dietro mia mamma per farsi aiutare alla cassa. In questo modo poteva dare man forte al personale.

Dopo averli salutati, mi lasciai cadere a peso morto sul divano. Isabel si era accomodata sulla poltrona di papà, posizionata in un angolo adiacente a una finestra che dava sul giardino all'ingresso. Era tutta presa dal cellulare, io facevo zapping alla tv.
«Hai conosciuto i nuovi vicini?» Mi chiese d'un tratto mia sorella.
«All'incirca. Perché nessuno di voi ha avuto la brillante idea di avvisarmi di questo trasferimento?» Isabel mi guardò stranita. Non le potevo dare torto, avevo usato un tono piuttosto irritato. In altre circostanze me ne sarebbe fregato meno di zero di chi vive o non vive alla porta accanto, ma lei non poteva minimamente sospettare di quanto accaduto nel pomeriggio, così la informai. Come da copione, lei rise e non trovai nemmeno nel suo modo di ridere una qualche sorta di difetto. Come riuscisse in ogni minima cosa che facesse, restava un mistero.
«Quando hai finito di prenderti gioco di me, ricordati di arrivare al punto, perché so che ce n'è uno.» Sputai acida. Lei rise per un altro paio di minuti, poi prese aria. Sul viso le si dipinse la più finta delle espressioni serie che potesse assumere.
«Okay, okay, ci sono. Volevo proporti una cosa. Anzi, questa è esattamente una di quelle cose che tu approveresti e che io eviterei di fare.» Stavolta il suo sguardo era davvero serio.
«Va' avanti, ti ascolto.» Le dissi, mentre la cosa cominciava a farsi interessante. Mi misi a sedere, come se la mia postura potesse in qualche modo farmi aguzzare di più le orecchie.
«Diciamo che ipoteticamente io conosca il nostro vicino, Aiden, lo stesso che ti ha visto le tette.» Alzai gli occhi al cielo. «Se questi avesse organizzato una festa ed io ci volessi andare, tra qualche ora, tu ci verresti con me?»
Spalancai la bocca così tanto che la mascella avrebbe potuto benissimo cadere. Quella era proprio Isabel, mia sorella, colei propensa a rispettare sempre le regole o un alieno? Per quello che mi riguardava, poteva trattarsi anche di un robot dall'aspetto di Isabel, mandato da mio padre a controllarmi. Mi ripresi dallo shock iniziale e la guardai con circospezione.
«Isabel, sei sicura di stare bene?» Alzai un sopracciglio, non perdendomi nemmeno un singolo spostamento dei muscoli facciali della biondina di fronte a me. Sembrava piuttosto convinta. E, mentre constatavo ciò, si faceva man mano spazio dentro di me la paura di una fregatura. Ero pessima. Come se non avessi del tutto la consapevolezza del fatto che mia sorella non mi avrebbe mai tirato un tiro così mancino.
«Sì, sto benone.» Puntò lo sguardo altrove, rabbuiandosi. Aveva qualcosa dentro che la stava tormentando. Mi alzai e mi avvicinai a lei, mi misi in ginocchio accanto alle sue gambe.
«Ehi... Dimmi cosa c'è che non va. Alla festa ci andremo e papà non saprà niente. Okay?» Isabel riportò gli occhi sulla mia figura, sorridendomi appena. Aveva le guance arrossate.
«Il fatto è che a quella festa ci sarà un ragazzo che mi piace. Ci stiamo, più o meno, frequentando. Diciamo che "mi piace" è un eufemismo. È il mio primo ragazzo e sto iniziando ad affezionarmi davvero a lui.» Questa nuova confessione mi fece realizzare che Isabel, in qualche modo, avesse dei segreti. Mi ferì più del dovuto, perché io le avevo sempre raccontato di me e Mason. Qualcosa nel mio viso le fece capire l'andamento dei miei pensieri, perché mi prese una mano tra le sue.
«Scusami se non te ne ho parlato prima. Conosco te, conosco papà. Avevo paura che te lo facessi scappare in qualche vostra lite. Sappiamo entrambe come è fatto nostro padre, mi avrebbe chiusa in casa per sempre.» Si giustificò. Dentro di me, invece, sentivo un nervosismo mordermi alla bocca dello stomaco. Per quanto la capissi e fosse sensato il suo ragionamento, non riuscivo a non sentirmi incazzata per la sua insicurezza nei miei confronti. Sbuffai. Non me la sarei presa con lei. Non quella sera, almeno.

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